I NUOVI EMIGRANTI. Un dialogo con Claudia Cucchiarato.
Per comprendere appieno il fenomeno migratorio che riguarda il nostro paese è necessario indagare anche un lato nascosto a spesso taciuto dall’informazione, l’emigrazione di molti italiani in cerca di fortuna nel resto d’Europa e del mondo. “Vivo altrove” (Bruno Mondadori) della giornalista freelance Claudia Cucchiarato, dando spazio alle voci di molti giovani che hanno lasciato il nostro paese per vivere, studiare e realizzare se stessi in altri paesi, getta nuova luce su un fenomeno poco conosciuto ma in costante crescita.
Riportiamo di seguito un colloquio ( a distanza) con l’autrice del libro.
“Tutte le storie che si trovano in questo libro potrebbe raccontarle una mappa. Quella dell’Europa unita. Ma anche quella delle rotte aeree, ferroviarie, marittime. Le rotte che in tanti hanno seguito nei secoli scorsi. E che continuano a seguire, oggi, i nostrani viaggiatori inquieti, eredi della diaspora del Novecento. Questo libro parla di loro. Di giovani italiani in viaggio, con una mappa in tasca. Non di cervelli in fuga. Non solo e non necessariamente. Parla di persone, spesso laureate, che prendono un volo low-cost, una nave o un treno e oltrepassano i confini del nostro paese con poche cose nello zaino e molte aspettative in testa. Non hanno la valigia di cartone, sono ben diversi dai protagonisti del “grande esodo” a cavallo tra Ottocento e Novecento, e non vedono l’espatrio come un obbligo. È una scelta. Scelgono coscientemente, puntando il dito sulla cartina, di andare altrove. E poiché la loro è una rotta incerta, molto spesso casuale, si è deciso di seguirli secondo un ordine spaziale, più che causale. Li ritroverete come in una mappa, sparpagliati e in continuo movimento tra i quattro angoli di un continente dai confini fluidi. Nomadi in uno “spazio globale” la cui progressiva interconnessione erode i concetti stessi di frontiera,stato o territorio nazionale.”
Da anni ormai, ascoltando la cronaca dei quotidiani, sembra che l’Italia sia diventata solo un paese meta di immigrazione massiccia. Ma esiste un’altra realtà, un costante flusso di emigranti che lascia il nostro paese. Secondo la tua esperienza, a quale descrizione corrisponde la maggior parte di loro? Possiamo dire di esserci lasciati alle spalle l’immagine dell’immigrato con la valigia di cartone?
Sì, chi se ne va dall’Italia al giorno d’oggi non lo fa per necessità, ma per scelta. Tutte le persone che ho intervistato per scrivere “Vivo altrove” mi hanno detto che ciò che caratterizza il loro movimento migratorio è la possibilità di espatriare senza rischiare più di tanto. Si tratta di una scelta personale dettata dalla volontà, più che di un “espatrio” dettato dal bisogno. I giovani, che sono in sostanza quelli che maggiormente possono permettersi di andarsene, perché ancora non inseriti nel tessuto economico, non rivestiti di responsabilità familiari impellenti, eccetera, se ne vanno per crescere come persone più che per affermarsi come professionisti. Inoltre, gli strumenti che ci mette a disposizione la nuova società globale (internet, la moneta unica e l’assenza di frontiere nello spazio europeo, i voli low cost, i programmi si studio o lavoro all’estero come l’Erasmus, il Leonardo o l’Overseas…) mettono i nuovi migranti di fronte a una sfida in parte più semplice di quella che si trovavano ad affrontare chi emigrava dall’Italia nel secolo scorso o chi oggi si trasferisce nel nostro Paese (l’Italia esporta laureati e importa soprattutto braccianti e badanti). Ed è anche perché l’Italia non si sa occupare dei propri giovani che sono pochissimi i giovani delle stesse caratteristiche (ossia provenienti da Paesi altrettanto sviluppati) che decidono di venire a vivere da noi.
Secondo i dati di un rapporto del Ministero degli Esteri Italiano redatto nel 2009 dal titolo “Fuga di cervelli” sembrerebbe proprio che ad essere colpiti da questo fenomeno di lento e costante espatrio siano proprio i giovani meglio qualificati e preparati. Se pensiamo che siamo uno dei paesi OCSE che meno investe nella ricerca il quadro che ne risulta non è molto edificante. Dalle interviste che riporti nel tuo libro sembra proprio che non ci siano molte alternative per chi vuole vivere in un paese diverso, visto che a breve termine l’Italia non offre molte prospettive di cambiamento. Pensi che questo fenomeno sia in crescita?
Io credo di sì, ogni anno se ne vanno decine di migliaia di giovani italiani e la cosa più preoccupante è che non abbiamo dati su questo fenomeno: non sappiamo quanti siano né dove vivano. In Spagna, per esempio, la crisi si sta abbattendo con più forza nel mercato del lavoro e nell’economia rispetto a quanto accada in Italia, eppure ogni giorno conosco nuovi giovani italiani che, nonostante tutto, hanno deciso di trasferirsi a Barcellona o a Madrid: continuano ad arrivare, forse meno rispetto a un paio d’anni fa, ma sono qui e qui si sentono benvenuti. Anche a Berlino esiste un flusso in costante aumento di nostri giovani connazionali che cercano un luogo economico ed accogliente (nonostante la difficoltà della lingua e la rigidità del clima) in cui inaugurare una “nuova vita”. Le persone che io ho intervistato non se ne vanno solo perché attratte dalle grandi città e capitali europee o perché cercano un lavoro che in Italia faticano a trovare, se ne vanno perché l’Italia non piace, vogliono vivere in un contesto più aperto e cosmopolita, mettersi in discussione, imparare dal diverso e scoprire che sotto sotto non è così difficile farcela.
Difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro,precariato, favoritismi, un sistema accademico bloccato e poco innovativo, burocrazia inefficiente: in effetti il nostro paese offre poche garanzie ai giovani, talenti o no, in cerca di affermazione personale. Ma siamo sicuri che sia solo un fenomeno di tipo economico? L’Italia è uno dei paesi più industrializzati al mondo, con una qualità della vita piuttosto alta eppure la sensazione è che non si viva poi così bene…..
Il precariato esiste anche all’estero, esistono gli stage non pagati, i “contratti spazzatura” (come vengono chiamati ad esempio in Spagna)… Ma c’è un dettaglio di non poca importanza che fa la differenza e sta nel modo in cui vengono considerati e trattati i giovani in Italia. A differenza di quel che accade nel resto del mondo, in Italia essere giovane (o donna) spesso vuol dire essere poco valorizzato, costretto a non poter scegliere e a non poter chiedere perché sicuro di ottenere risposte negative. All’estero i giovani vengono visti come una risorsa in formazione. In Francia un governo di centro-destra ha aumentato i contributi alla ricerca nonostante il momento economico di crisi; in Italia è successo l’inverso: tagli alla cultura e alla ricerca, con relativo scandalo e proteste di tutti i settori dell’educazione e la cultura. Come possiamo sperare che le nuove generazioni si preparino a reggere il futuro del nostro Paese se sono i primi a pagare le conseguenze del brutto periodo e, soprattutto, anche se sottopagati, non ricevono a cambio nemmeno quella formazione professionale di cui avrebbero bisogno perché visti come una minaccia più che come un patrimonio? Proprio questo meccanismo per cui, appena si mette le mani su un contratto a tempo indeterminato, non lo si lascia manco morti, porta anche i giovani che vivono in Italia a percepire il mondo del lavoro come qualcosa di immobile. Nel mondo anglosassone, invece, il mondo del lavoro è molto più fluido, si lascia e si prende un lavoro spesso e in fretta, senza la paura di non trovare nient’altro in futuro. Il meccanismo imperante nel nostro Paese rende ancor più paranoica la situazione dei giovani che cercano lavoro. Questi stessi giovani, una volta varcata la “frontiera”, scoprono che non sempre è così, che il lavoro è un mezzo, non un fine.
Nel tuo libro si parla anche di “liquidità” ovvero di una dimensione mutevole che molti giovani scelgono di vivere per potersi adattare meglio ad una società in costante cambiamento. Una condizione che offre molte possibilità nella misura in cui si affrontano non pochi rischi. In Italia la sensazione è che ci siano più rischi da sostenere che possibilità. Come pensi debba cambiare l’approccio italiano alla questione della piena valorizzazione dei giovani nella società e nel mercato del lavoro?
È l’estrema rigidità del mondo del lavoro italiano e le poche speranze che il cosiddetto “ascensore sociale” inizi a funzionare in modo “meritocratico” che rende i giovani così precari e alla ricerca, quasi paranoica (come dicevo sopra), di un contratto a tempo indeterminato. Si potrebbe iniziare proprio da questo, dalla valorizzazione delle idee e dell’estro giovanile, dalla loro formazione in un mercato più aperto, meno gregario: penso ad esempio al settore della medicina o a quello del giornalismo, in cui mi sono mossa io e in cui è praticamente impossibile fare carriera se non si è figlio o amico di qualcuno. La stessa società in cui sono nati i giovani di cui ho raccontato nel mio libro li spinge a vedere il futuro come un punto di domanda, costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, migranti liquidi in un mondo in cui le frontiere sono state abbattute, in cui si parlano più lingue allo stesso tempo… Tutte le cose che ho elencato finora sono qualità preziose delle quali i giovani italiani sono già in possesso, per questo sostengo che siamo molto più europei del nostro stesso Paese. Siamo un’emanazione e conseguenza logica di un ambizioso progetto che per ora sta solo sulla carta, perché non esiste un quadro normativo che ci tuteli.
L’idea che mi sono fatto leggendo il tuo libro è che molti italiani abbandonino il proprio paese perché non si sentono legati o non si sentono poi parte della comunità nazionale. Forse non solo esigenze economiche e lavorative, ma proprio questa mancanza di appartenenza spinge cittadini italiani a vivere in altri paesi. La condizione di espatriato non è, paradossalmente, qualcosa che nasce già in patria?
Certo, e in Italia più che in altri posti. Siamo migranti da sempre, lo spostamento è iscritto nel nostro DNA, come dimostra la storia del nostro Paese e il fatto che vai dove vai c’è già un italiano che vive lì da tempo. Un ragazzo di Venezia che ora vive a Londra mi ha fatto riflettere sul paragone tra il suo modo di vedere e vivere l’espatrio e quello che aveva sperimentato prima di lui lo scrittore Luigi Meneghello (che se ne andò da Vicenza durante il Fascismo per approdare anche lui nel Regno Unito). Nonostante le differenze storico-economiche della spinta iniziale, entrambi vedono l’espatrio come un “dispatrio”, ossia una condizione dell’essere che nasce già in patria, un sentire che si è “fuori” anche quando si sta dentro, ma che si concretizza e si comprende in tutta la sua grandezza solo una volta fatto il passo.
Devo dire comunque che è anche vero che vivendo all’estero alcune caratteristiche dell’italianità vengono esasperate: si tifa di più per la nazionale, non si può vivere senza il Parmigiano e si trova cattivo qualsiasi espresso, anche se confezionato a regola d’arte. Si apprezzano molto di più le cose buone del nostro Paese, peccato che però, alla fine dei conti, la bilancia pende sempre a favore di quelle meno buone, e per questo si tende a rimanere fuori più a lungo e in modo più stabile rispetto ad altre persone provenienti da altri Paesi.
Nel tuo libro parli anche di quella uscita poco felice dell’ex ministro Padoa-Schioppa che definì i giovani italiani “bamboccioni” per la loro propensione a rimanere in famiglia fino a tardi. Non è proprio la famiglia come nucleo economico a fornire quel sostegno fondamentale, a fare da tappabuchi ad un welfare poco sensibile alle esigenze giovanili, che lo stato non fornisce ai giovani?
La famiglia, soprattutto in tempo di crisi, è uno dei pochi ammortizzatori sociali funzionanti nel nostro Paese. Mi ha infastidito la dichiarazione di Padoa Schioppa e mi ha innervosito la stessa citazione da parte di Brunetta. Come se fosse tutta colpa dei giovani e delle famiglie possessive. Forse non molti sanno che gran parte dei giovani che, secondo i registri ufficiali di cui dispone lo Stato, vivono ancora a casa con i proprio genitori, stanno in realtà vivendo all’estero da un bel po’ di anni.
Come rivelano le statistiche anche il nostro paese non ha una precisa stima di quanti giovani o meno giovani lascino il nostro paese per la decisione di molti di non iscriversi nei registri dell’anagrafe degli italiani all’estero (AIRE). Tuttavia, non si ha l’impressione di essere di fronte ad un fenomeno che le istituzioni stanno sottovalutando?
Continuando con il discorso iniziato prima: saranno anche tanti i cosiddetti “bamboccioni” e la famiglia italiana avrà le sue responsabilità sul ritardo con cui ci si emancipa nel nostro Paese, però i dati non sono affidabili in nessun caso quando si parla di giovani italiani. Solo per fare un esempio, quasi la metà delle persone che ho intervistato per il mio libro vive all’estero da tempo ma ha la residenza ancora a casa di mamma e papà. È anche per questo, perché non sono obbligati a registrarsi in nessun ufficio consolare e perché lo Stato italiano non ha nessun interesse a conoscere la grandezza di questo fenomeno, che tutte queste persone praticamente non esistono, sono “nessuno”. Eppure ci sono, sono tante, sempre di più e hanno molta voglia di far sapere all’Italia il perché della loro “fuga”. Il fenomeno si sta sottovalutando, secondo me, anche volutamente. Come mi hanno detto alcuni degli intervistati: se non ci registriamo all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) non interessiamo a nessuno, nemmeno dal punto di vista politico, perché non possiamo votare. Sarebbe bello capire perché succede tutto questo, se e perché all’estero gli italiani perdono qualsiasi stimolo a partecipare nella vita politica del proprio Paese. Qualche tempo fa un amico mi raccontava di un esperimento che hanno fatto alcuni studenti dell’Università di Padova nella conduzione di un radio giornale ambientato in un ipotetico 1 maggio del 2030. Al Governo c’era Ivan Scalfarotto, leader del “Partito per l’estero”, che aveva trionfato alle ultime elezioni perché negli ultimi 30 anni l’Italia aveva subìto un esodo di massa senza paragoni con nessun altro Stato del mondo. Una parodia, chiaramente, ma non così incredibile, credo che sia una prospettiva abbastanza probabile.
Come descrivi molto bene nel tuo libro la Spagna e in particolare Barcellona risultano molto invitanti per tanti italiani che decidono di andarci a vivere anche solo temporaneamente. Una semplice fascinazione estetica oppure la Spagna sembra offrire tutte quelle caratteristiche che il nostro paese non offre ai giovani?
In Spagna si vive molto bene. Fino a qualche anno fa i prezzi erano molto più bassi rispetto al costo della vita media in una città italiana. Il clima è ottimo, si mangia bene, si parla una lingua (o più lingue) facile da imparare per un italiano… e soprattutto è stato negli ultimi dieci anni il Paese che è cresciuto più velocemente e spettacolarmente a livello economico e ha vissuto un vero e proprio boom dal punto di vista delle politiche sociali. Insomma, ha o ha avuto tutto: è normale che tanti italiani senza un’idea precisa di che cosa volessero fare nella loro vita si siano trasferiti e continuino a trasferirsi qui. Per un giovane italiano medio qui ci sono davvero tutte le cose che mancano in Italia: buon clima sociale e politico, accettazione nei confronti del diverso, soprattutto a Barcellona e Madrid convivono abbastanza pacificamente persone provenienti da qualsiasi parte del mondo. Ma soprattutto, qui i giovani sono visti come un bene prezioso, soprattutto se sono giovani con capacità e talento.
I vecchi emigranti italiani rimanevano nostalgicamente legati alla terra d’origine tanto da riproporre usanze e riti propri della loro terra. I migranti di oggi sembrano più europei che italiani, nostalgici a volte ma poco legati al paese d’origine, come dici tu “senza radici”. Siamo davanti a futuri cittadini europei o soltanto a persone disinnamorate del proprio paese?
Entrambe le cose. I giovani italiani sono veri e propri cittadini europei (per le caratteristiche descritte sopra), ma anche delusi dal proprio Paese. È per questo che, nonostante la nostalgia della mamma, la pasta, il buon clima e il bel paesaggio, in pochi nutrono la speranza di tornare un giorno. Altri giovani europei che ho avuto modo di conoscere in questi anni non sono della stessa opinione, tendono a tornare “a casa” o almeno credono che verranno accolti a braccia aperte al loro ritorno. Questo per gli italiani, per ora almeno, è solo un sogno. Le esperienze di chi, fra quelli che sono tornati in Italia negli utlimi anni, si è pentito e dice di sentirsi addirittura criticato o stigmatizzato per aver preso questa decisione, non aiuta certo al rimpatrio massivo.
Nel contesto europeo la percentuale di persone che lavorano in paesi diversi da quello di origine è ancora piuttosto bassa, circa il 2%. Cosa non ha funzionato nell’integrazione europea? L’abolizione delle frontiere ci ha fatto scoprire un’unione ancora molto locale e poco europea…
Rispetto agli Stati Uniti, dove la mobilità è molto più alta, in Europa, nonostante l’introduzione della moneta unica e l’apertura delle frontiere, ci troviamo ancora a dover fare i conti con una conoscenza delle diverse lingue molto bassa e un’alta incidenza delle decisioni dei diversi stati membri nella regolazione del mercato del lavoro e dei beni. L’Europa Unita è un progetto ambizioso e geniale, eppure molto ancora sta sulla carta e molto ancora c’è da fare. È abbastanza sorprendente constatare che sono proprio le persone che conformano questo progetto, i giovani europei che in esso sono nati e cresciuti, ad essere (già, adesso e da alcuni anni a questa parte) le cavie sulle cui esperienze si possono vedere non solo i vantaggi dell’Europa, ma anche e soprattutto le difficoltà e i difetti di questo progetto. Il mio libro, molto umilmente, cerca di dare una voce a queste persone. Soprattutto agli italiani, perché sono quelli che maggiormente, secondo le stime dell’OCSE, circolano oggi giorno nel continente e quelli che meno vengono presi in considerazione dal proprio Paese d’origine. Bisognerebbe partire proprio da qui: dalla creazione di un quadro giuridico e normativo che stabilisca dove e in che modo si pagano le tasse, dalla formazione di organi sopranazionali che tengano d’occhio la grandezza del fenomeno e ne forniscano un ritratto, dalla regolazione dei flussi, la semplificazione delle gestioni fiscali, giuridiche, anche elettorali… sono ancora molti i problemi che i giovani europei residenti in un paese diverso da quello di origine si trovano a dover affrontare, nonostante molte cose siano cambiate, in meglio, rispetto alle migrazioni del secolo scorso o a chi davvero “espatria”, trasferendosi in un altro continente.
Continua il colloquio con l’autrice su www.vivoaltrove.it
a cura di Matteo Villa, La.p.s.u.s.
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