Milano, quarant’anni dopo…

Milano, quarant’anni dopo…

lo sguardo di tre giovani studenti sull’Italia che ci circonda a 40 anni da Piazza Fontana

Milano, quarant’anni dopo, non è più la stessa. Noi non c’eravamo, ma lo capiamo che era tutta un’altra città. Sono le nostre impressioni, sono i racconti “dei grandi” a farci immaginare Piazza Duomo invasa da auto e taxi, gli studenti con l’eskimo e i capelli lunghi che in massa si avviano verso l’Università Statale. Anche Piazza Fontana è cambiata. Per noi è una tranquilla rotonda con panchine, dove sembra di non essere (quasi) a Milano.
Ma il 12 dicembre 1969, alle 16.37, l’Italia si è svegliata sotto una valanga di morti ed ancora oggi ci si interroga su perché, da quel giorno d’inverno, si sia dovuto fare i conti con la paura, con la morte, col dolore.

Per chi non studia storia, affrontare un capitolo tanto complesso e articolato e, per molti versi, ancora oscuro, può sembrare un mero esercizio teorico.
Ma quel giorno d’inverno si è proiettato, come le schegge assassine di quel pomeriggio, nel presente, lasciando dei segni indelebili.
Quarant’anni dopo l’esplosione, il Paese che così compatto aveva silenziosamente reagito a difesa della libertà, ci appare in inesorabile declino.

Disincanto, arretratezza economica e sociale, incapacità di analizzare il tempo presente con distacco e scientificità, sfiducia nelle istituzioni, la sensazione che il Potere costituito sia tramandato immutato e immutabile.
Tutto ciò concorre nel lasciare campo libero a fenomeni come il populismo di stampo leghista, il grillismo o il berlusconismo: l’antipolitica come reazione alla “scomparsa” della politica. E se lontani sono ormai gli anni del boom economico e dei partiti di massa, la sfiducia nel futuro è un elemento caratterizzante delle nuove generazioni di “professionisti del precariato”.
Questa fosca situazione ci ha spinto a domandarci dove tutto ciò abbia avuto origine. Perciò abbiamo iniziato a scavare in profondità.

L’Italia che esce dalla guerra è un Paese malconcio, ma già dieci anni dopo si parla di boom economico: aumento dei consumi, vitalità e partecipazione politica, volontà di trasformazione, una maggiore importanza in ambito internazionale. Sono tutti sintomi di un Paese che cresce.
Le prime battute d’arresto arrivarono verso la metà dei Sessanta, con la fine del boom, il Piano Solo, il fallimento del centrosinistra, e consegnarono ai sessantottini un Paese ormai in bilico tra voglia di cambiamento e volontà di conservazione.
La contestazione giovanile fa paura, quando si trasforma in scontro di piazza genera ondate di dura repressione. E mentre, insieme al movimento studentesco, cresce il movimento operaio, che prenderà coscienza della propria condizione e presenterà ben presto istanze di cambiamento, determinate forze reazionarie e conservatrici si misero in moto per bloccare la spinta dal basso al cambiamento.
Il 25 aprile 1969 esplodono due bombe a Milano, una alla Fiera campionaria, l’altra alla Stazione Centrale. Nella notte tra l’otto e il nove agosto dello stesso anno, ben dieci ordigni deflagrano su altrettanti treni, in tutta Italia.
Alla riapertura delle fabbriche, prende avvio un’intensa stagione di vertenze, rivendicazioni, scioperi, occupazioni: sarà l’autunno caldo, ma nessuno sembrerà accorgersi che si sta tentando di stroncare la grande mobilitazione; tutto ciò finisce, infatti, per appoggiare quanti sostengono che il pericolo comunista non sia più ignorabile, facendo leva su paure e angosce mai sopite.

E’ in questo clima che la bomba del 12 dicembre, con il suo devastante carico di morte, si porta via sedici persone e lascia un solco profondo nell’Italia intera.
Ma se l’obiettivo era fermare lo spirito riformatore, la voglia di cambiare di quella stagione di grandi lotte sociali che andava aprendosi, esso in un primo momento fallisce.
Durante i funerali delle vittime, Milano risponde con composta fermezza; quel giorno, migliaia di persone si ergono, consapevolmente o meno a difesa della libertà. Anche i tremila che partecipano ai funerali di Pino Pinelli fanno da monito a qualsiasi tentativo di svolta autoritaria.
Nei mesi immediatamente successivi l’eccidio, la reazione al grave fatto diventa più attiva: nasce la controinformazione. Il desiderio di verità e giustizia spinge tanti militanti della sinistra extraparlamentare alla caccia di maggiori notizie e informazioni. Vede così la luce “La strage di Stato”, prima controinchiesta, primo contributo alla verità, nuovo modo di “fare giornalismo”. A leggerlo oggi stupisce per le numerose ed esatte intuizioni su fatti che sarebbero venuti a galla sono molti anni dopo. Certo, non mancheranno gli errori, ma potremmo considerarli quasi fisiologici se non fosse che, negli anni seguenti, la controinformazione resterà vittima di valutazioni basate su preconcetti abbandonando lo sguardo critico e oggettivo che l’aveva contraddistinta fin dagli albori.
La strage segna però una degenerazione, un progressivo imbarbarimento del modo di far politica, che scivola dal piano dello scontro verbale a quello dello scontro armato, quasi militare, innalzando sempre più la tensione.

Già, la strategia della tensione, che passa dalla fase teorica alla fase d’attuazione iniziando un lento lavoro di logoramento delle coscienze, soprattutto di chi si oppone alla normalizzazione e alla conservazione.
Le bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni, il golpe strisciante, la guerra civile a bassa intensità.
Dalla stagione delle bombe si passa agli anni di piombo; il mostro terrorista generato dall’odio e dalla violenza si nutre dell’odio e della violenza che ha generato, assurto ormai a fenomeno endemico della società italiana dopo più di trent’anni di presenza sulla scena nazionale.
Sangue versato, stillicidio quotidiano di morti, violenza inoculata giorno per giorno e che diventa il veleno che negli anni addormenta le coscienze, dolore e lacrime che le anestetizzano.
Prima lo stragismo, poi il terrorismo infergono duri colpi ai movimenti dei Settanta, edulcorandone man mano la capacità e la volontà propositiva, rigenerativa, innovativa rispetto una società che non chiedeva altro che normalità, conservazione dello status quo.
La marcia dei quarantamila quadri FIAT a Torino dell’autunno 1980 segna anche la fine di un movimento sindacale che fino ad allora era cresciuto esponenzialmente ed era stato motore importante di molti cambiamenti avvenuti nel Paese.
Gli anni Ottanta, e la svolta liberista, segnano il riflusso da “il personale è politico” ad una dimensione talmente privata, quasi ermetica rispetto a prima, da arrestare i successivi risvegli dei movimenti. La disillusione accumulata, le utopie demolite, il ribellismo frenato, la morte in piazza, segnano chi vive quegli anni così profondamente da far scomparire la volontà di narrare la propria esperienza alle nuove generazioni, impedendo così ad esse di ottenere quei cambiamenti che loro non erano riusciti a realizzare, e di fare tesoro di un esperienza che comunque era stata di forte slancio e rinnovamento.
In un certo qual modo la strage di Piazza Fontana rese possibile avviare una stagione che ha prima arginato (e normalizzato) la situazione; poi ha posto le basi per la conservazione della società grazie anche ad una graduale narcotizzazione del pensiero collettivo anticonformista e ribelle.

Per tutti questi motivi il 12 dicembre 1969 segna uno spartiacque. Un prima e un dopo. Piazza Fontana diviene snodo cruciale tra due stagioni che spaccano la storia recente del Paese. Prima e dopo. In questo senso quegli anni sono ancora tra noi.
Ed ora, che fare?
Qualcuno ancora continua a dare la caccia al vecchio nemico, oggi rappresentato da sparuti gruppetti neofascisti. Ci sembra un tantino anacronistico, visto anche che la loro effettiva pericolosità è quasi prossima allo zero; oppure c’è chi teorizza l’uguaglianza Berlusconi – nuovo fascismo, non capendo che i fenomeni sono ben più complessi ed elaborati di questa comoda scorciatoia.
Piuttosto sarebbe meglio analizzare, sezionare, capire quelle radici che in molti si affannano a seppellire, e che fa dire alla maggioranza degli studenti di oggi che la strage di Piazza Fontana è opera delle Brigate rosse.
Studiare Piazza Fontana significa capire le ragioni dell’oggi e attrezzarsi diversamente ad affrontare un futuro che, senza le dovute correzioni, potrebbe rivelarsi molto più nero di quello che l’Italia ha affrontato all’indomani della strage.

Ecco, questo quarantesimo potrebbe essere l’occasione per cominciare a risalire la china rimboccandosi le maniche, noi giovani per primi.

di Giulio D’errico, Fabio Vercilli e Martino Iniziato

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Martino Iniziato

Laureato in scienze storiche presso l’università degli studi di Milano con una tesi su Ronald Reagan, ha imparato a fare siti internet quasi per gioco e lo ha trasformato in un quasi-lavoro. Un po' giornalista, un po' cameriere, un po' promotore d'eventi culturali è tra i fondatori dell'Associazione Lapsus e si rivede molto nella definizione springstiniana di "Jack of all trade": tuttofare. Tra le altre cose, è il curatore di questo sito per conto di Tanoma.it. Su twitter è @martinoiniziato

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