Vita di una fotografa antimafia. Presentazione di “Letizia Battaglia”.

martedì 19 ottobre ore 10.30 aula crociera alta

c/o Università Statale, via Festa del Perdono 7

presentazione del libro:

“LETIZIA BATTAGLIA

sulle ferite dei suoi sogni”

di Giovanna Calvenzi

Bruno Mondadori Edizioni, 2010

ne discuteranno con l’autrice:

Letizia Battaglia, protagonista del libro;

Iole Garuti,  Direttrice dell’associazione e del Centro Studi Saveria Antiochia OMICRON Onlus (Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord)

«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente.»

Letizia Battaglia, donna che non accetta etichette, determinata a essere coerente con i suoi ideali di libertà e giustizia, è la fotografa europea più premiata ma è anche editrice, politica, ambientalista, regista. Il suo nome è legato a quasi vent’anni di reportage a Palermo: le sue immagini hanno fermato la storia, quella delle guerre di mafia e contro la mafia. A questo libro, che ripercorre fin qui la sua vita, hanno voluto contribuire amiche e amici che hanno percorso con lei un pezzo di strada.

Giovanna Calvenzi, photo editor di “Sport Week”, insegna Storia della fotografia e Linguaggio fotografico al Centro Riccardo Bauer di Milano e al Master in Editoria alla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna. Ha collaborato alla realizzazione di mostre e libri fotografi ci e svolge un’intensa attività di ricerca sulla fotografia contemporanea.

Vita di una fotografa antimafia, intervista a Letizia Battaglia di Elena Ciccarello

da narcomafie.it

Fotografa, regista, ambientalista, femminista, politico… Letizia Battaglia dice di essere «una persona che fa delle cose» e in questa definizione si nascondono due grandi verità. La prima è la generosità del suo impegno culturale e politico, anteposto al successo professionale, e, seconda, è la passione con la quale crede nell’azione civile e personale come motore di cambiamento.
Vincitrice nel 1985 del prestigioso premio W. Eugene Smith per la fotografia sociale, Letizia Battaglia ha attraversato con la sua vicenda privata e professionale gli ultimi quarant’anni di storia siciliana, scontrandosi con la violenza e la miseria dell’isola.
Oggi, all’età di settant’anni, continua a girare il mondo con le sue fotografie, perché la sua lotta non è capriccio intellettuale né rivincita del buono contro il cattivo, ma amore per la vita. Siamo andati a trovarla a casa, nel cuore del centro storico di Palermo.

Signora Battaglia, come fotografa del quotidiano palermitano «L’Ora», lei ha vissuto da vicino l’esplosione della violenza mafiosa dei primi anni Ottanta…

Quando sono arrivata al giornale, nel 1974, non sapevo molto di mafia: pensavo fosse un problema delle campagne. Poi, sul finire degli anni Settanta, mi capitò sempre più spesso di fotografare degli omicidi: arrivai a contarne fino a cinque al giorno. Non fu semplice perché essere donna mi rendeva poco credibile come fotografa di mafia, e sul luogo del delitto sia i familiari delle vittime che le forze dell’ordine mi ostacolavano.

Che valore aveva in quegli anni denunciare con la fotografia quanto stava accadendo?

In realtà a «L’Ora» non era riconosciuto ai fotografi alcun ruolo autonomo di denuncia. Ero contenta di lavorare in un quotidiano antifascista e antimafia, ma anche lì le fotografie erano trattate solo come corredo degli articoli.

Eppure il suo lavoro non si è fermato alla cronaca…

No, ma è avvenuto al di fuori del giornale. Nel 1980 partecipai alla fondazione del Centro siciliano di documentazione Peppino Impastato. Fu la bella presenza a Palermo di Umberto Santino e Anna Puglisi, già da tempo promotori di iniziative antimafia, a coinvolgerci tutti. Con il Centro, io e Franco Zecchin, fotografo e mio compagno per vent’anni, organizzammo mostre per le strade, di cui una, memorabile, a Corleone: la cittadina era in festa e in molti si avvicinavano a curiosare, finché qualcuno non vide tra i nostri pannelli le foto di Luciano Liggio. Allora, poco alla volta, sparirono tutti dalla piazza lasciandoci soli. Abbiamo avuto paura.

Quali scatti esponevate e perché?

Fotografie che rappresentassero l’intero mondo mafioso: miseria, politica, processi, arresti. Volevamo che la gente fosse cosciente della strategia mafiosa in atto contro le istituzioni democratiche.
Talvolta finivamo anche per essere naïf nel nostro sognare una Sicilia pulita e onesta. Eppure condividere con altri il nostro dolore non risultò vano, anzi destò nuova attenzione intorno al problema. Mancò invece una risposta forte da parte del mondo politico, e mentre giudici, poliziotti, giornalisti e politici cadevano sotto i colpi della mafia noi cominciammo ad essere ossessionati da un crescente senso di solitudine.

Come reagì la città di Palermo al montare della violenza mafiosa?

Durante gli anni Settanta la gente credeva ancora che la mafia colpisse solo i mafiosi. Neanche quando nel gennaio 1980 uccisero il presidente della regione Piersanti Mattarella nacque una riflessione collettiva. Ci volle tempo prima di assistere a reazioni di piazza: la prima volta fu nel 1982, per i funerali del prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, e poi l’anno successivo, per l’uccisione di Rocco Chinnici (consigliere istruttore della procura di Palermo, ndr.), molto conosciuto per la sua attività di sensibilizzazione antimafia fatta nelle scuole.
La crescente attenzione della società civile si tradusse anche nel fenomeno culturale e politico noto come “Primavera di Palermo”, che segnò l’ascesa di Leoluca Orlando a sindaco della città…
Il risveglio fu lento e progressivo, accelerato da omicidi eccellenti, e Orlando seppe cogliere e guidare questa voglia di rinnovamento. La “Primavera di Palermo”ci fece sognare un futuro diverso.

Proprio in quegli anni lei è passata dalla denuncia civile all’azione politica…

Sono stata due volte consigliere comunale, la prima volta nel 1986 con il partito dei Verdi, poi assessore “Alla vivibilità urbana” con Orlando e infine deputato regionale. Ho un ottimo ricordo del mio lavoro all’assessorato, perché ho potuto operare concretamente, pulire le piazze, sporcarmi le mani. Abbiamo piantato molti alberi in quegli anni: mi piaceva avvicinare la gente ad una città più ricca di verde. Finito l’incarico continuai a lavorare con Orlando come consulente esterno per il carcere.

Perché proprio il carcere?

Quando lavoravo al giornale provavo vergogna a fotografare la gente ammanettata, sentivo di fargli violenza.
Chiesi di lavorare nel carcere perché non provo odio verso chi lavora per la mafia, anzi penso che alcuni di loro vorrebbero cambiare vita. Per questo ho sempre creduto che la lotta alla criminalità non possa limitarsi alla via repressiva.
Quando scelsi di lavorare in carcere era come se avessi voluto farmi perdonare di non aver saputo, con altri, costruire una società capace di tenerli lontani dalla criminalità. Volevo restituire a chi era in carcere una speranza, perché ho sempre pensato che i ragazzi nati nei peggiori quartieri di Palermo siano costretti a fare riferimento ai mafiosi. Di questo parlai anche con Giovanni Falcone, che si disse convinto del fatto che da certi quartieri si possa solo scappare, perché al loro interno non c’è possibilità di salvarsi.

Come ha vissuto la morte di Falcone e Borsellino?

Ho provato un dolore cocente, sia perché i loro omicidi giungevano al culmine di un crescendo di violenza, sia perché i due giudici si erano fatti amare. Ho provato una forte emozione piangendo insieme a tanta gente. Era come se il loro sacrificio fosse riuscito finalmente a risvegliare il senso civico dei siciliani. Il popolo si riversò nelle strade ed espresse grande rabbia e dolore. Sul momento credemmo non solo di poter continuare a lottare ma anche di aver trovato nuova forza. Poi invece è finito tutto, il popolo si è stancato.

Cos’è successo allora al movimento antimafia?

Me lo chiedo. Mi chiedo dove siano oggi quelli che urlavano ai funerali. Lo sdegno si è spento, l’urgenza è cessata e sembra che anche il pudore sia sparito. Le menti sono corrotte, i giovani non sanno e non vogliono sapere nulla. A Palermo opera il Centro Impastato e i ragazzi di Addiopizzo, ma non c’è più il sostegno dei cittadini.

Crede nell’educazione alla legalità fatta nelle scuole?

Non molto, penso che ormai si sia svuotata di significato e sia diventata una materia scolastica come le altre. Ammiro invece i ragazzi che lavorano i terreni confiscati alla mafia. Le lenticchie, la pasta, il pomodoro, sono frutti concreti, un’antimafia in cui credo.

Perché l’anno scorso ha lasciato Palermo?

Non sopportavo più il silenzio. Non si vive bene a Palermo. Ma alla fine mi sono sentita in colpa e sono tornata: la mia città mi imprigiona per troppo amore, vorrei ancora provare. Ho settant’anni e non posso più fare molto, se non perseverare nella promozione dell’integrità morale.

Allora si può fare ancora qualcosa…

Sicuramente. Di fronte all’indifferenza delle nuove generazioni diventa importante anche solo esserci. E poi mi capita di incontrare persone che meritano il nostro impegno: conosco e amo molto un ragazzo, figlio di un mafioso e nipote di un mafioso assassinato che io ho fotografato anni fa. Lui disprezza l’operato della sua famiglia, e soffre del silenzio che incombe sulla sua casa. È il più antimafioso di tutti, non manca a una manifestazione, studia, legge moltissimo. Sono sicura che non verrà mai ricacciato nel mondo di suo padre. Val la pena di fare ancora qualcosa per persone come lui.

Cosa pensa di chi fugge dalla Sicilia e dai suoi problemi?

Non sono moralista su questo tipo di scelte: ci sono menti eccelse che hanno bisogno di andarsene per girare un film, pubblicare un libro, specializzarsi. Restare legati alla propria terra è un impegno che solo alcuni sentono e che viene messo a dura prova dalla realtà dei fatti. Non sempre si ha la forza di resistere, non ce l’ho avuta neanch’io. Certo che se fossimo tutti qua, con le nostre belle teste, forse andrebbe meglio, ma capisco chi lascia la Sicilia perché i suoi sogni o i suoi diritti non vengono rispettati.

Come si conciliano l’impegno e la vita privata, l’essere madre in particolare?

Si possono conciliare, si deve. Non ho mai abbandonato i miei figli e sono una nonna amorevolissima. La vita è bella così per com’è: lotta, amore e gioia.

Quale forma ha la sua lotta oggi?

Ho la mia casa editrice, porto in giro le mie foto e i miei sogni… vivo da persona onesta. Cosa posso fare di più?

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Martino Iniziato

Laureato in scienze storiche presso l’università degli studi di Milano con una tesi su Ronald Reagan, ha imparato a fare siti internet quasi per gioco e lo ha trasformato in un quasi-lavoro. Un po' giornalista, un po' cameriere, un po' promotore d'eventi culturali è tra i fondatori dell'Associazione Lapsus e si rivede molto nella definizione springstiniana di "Jack of all trade": tuttofare. Tra le altre cose, è il curatore di questo sito per conto di Tanoma.it. Su twitter è @martinoiniziato

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