Su “Romanzo di una strage”: il pacto de l’olvido, la ricostruzione storica e la memoria consegnata al futuro

Scriviamo queste considerazioni dopo aver visto il film di Marco Tullio Giordana, “Romanzo di una strage”. Nonostante sia nelle sale da poche settimane si è già detto molto, chi in termini positivi, chi critici, e non poteva che essere così: in Italia, raccontare una storia come quella di Piazza fontana, suscita necessariamente clamore, nel bene e nel male.
Il punto principale su cui ci vogliamo concentrare è il seguente: nel momento in cui si decide di costruire una narrazione cinematografica ispirata a fatti realmente accaduti, cruciali nella storia del nostro paese, si deve essere consapevoli che si sta contribuendo a formare la vulgata che poi si radicherà nell’opinione pubblica (considerando anche la stragrande maggioranza dei potenziali spettatori, non informati sui fatti, anzi spesso, nel caso dei più giovani, per lo più ignari di quelle vicende).

E’ la potenza della divulgazione cinematografica: sui temi storici, volenti o nolenti, contribuisce a determinare la memoria collettiva. A maggior ragione nel caso di “Romanzo di una strage”, film osannato su alcuni media e da intellettuali come il racconto che finalmente mostra la “Verità” sul principale dei tanti “misteri” che costellano la storia dell’Italia repubblicana.

In qualità di storici, appartenenti alla scuola della storiografia repubblicana, e di eredi politici di quella parte di società che si oppose alle trame golpiste, al terrorismo nero e alle menzogne di Stato, non possiamo esimerci dal parlarne. Soprattutto, ritenendo questo film una tappa importante nel percorso di “svelamento” della verità storica alle generazioni interessate: quella di chi quegli anni li ha vissuti e quella dei più giovani, la generazione di passaggio tra chi c’era e chi non potrà più conoscere i “reduci” di quella stagione.

La necessità di un doppio giudizio

Anzitutto rassicuriamo chi legge: usando l’aggettivo “doppio” non ci stiamo riferendo in alcun modo alle manie da “Raddoppio universale” di Cucchiarelli, non vi preoccupate. E’ però sorta abbastanza spontaneamente l’esigenza di formulare due giudizi di diverso tipo sulla trama del film e sulle ipotesi dei possibili effetti sul pubblico (per quanto ancora sia troppo presto per fare affermazioni).

Veniamo al primo. Guardando “Romanzo di una strage”  da spettatore mediamente informato sui fatti e sulle vicende raccontate, oppure come un ragazzo che ne ha sentito parlare in televisione, senza mai aver approfondito a scuola o in università, il film risulta abbastanza chiaro ed accettabile nella ricostruzione base: la strage di Piazza Fontana è stata opera del gruppo neofascista veneto di Ordine nuovo, coperto da servizi segreti e apparati dello Stato; al più è possibile ipotizzare la presenza di un altro ordigno oltre a quello ordinovista, riconducibile però non agli anarchici ma sempre allo schieramento nero, in particolare ad Avanguardia nazionale di Stefano delle Chiaie.

Gli anarchici risultano sostanzialmente scagionati (Pinelli completamente, Valpreda in maniera più sfumata). Potrebbe restare nello spettatore il dubbio che comunque qualche bomba (anche solo dimostrativa) qua e là la mettessero, ma con Piazza Fontana e gli attentati che da aprile ad agosto precedono la “madre di tutte le stragi” è dichiarato più di una volta che non c’entrano nulla. Il ruolo invece avuto dai gruppi neofascisti, dal Fronte nazionale di Borghese ad Ordine nuovo, ad Avanguardia nazionale, risulta chiaro.

Anche la colpevolezza dello Stato e dei servizi di sicurezza, emerge chiaramente. Non si capisce bene a che livello, giacché le persone più serie e pienamente consapevoli su ciò che sta accadendo risultano essere Federico Umberto d’Amato (a capo dello Uarr – Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno) e il suo vice (nominato sempre come “il Professore” nel film), mentre tutti gli altri, dai politici ai dirigenti di polizia, non risultano certo simpatici, ma complici più per stupidità o arrendevolezza o perché legati alla ragion di Stato. In ogni caso, importanti sono la figura di Guido Giannettini e il dialogo tra Moro e Saragat, per esemplificare responsabilità e copertura.

Infine, la “finestra sulla strage”, ovvero la tragica fine di Giuseppe Pinelli: per quanto si tolga Calabresi (ma era abbastanza inevitabile in un film che ha per protagonista il commissario stesso) da ogni responsabilità, le contraddizioni dei poliziotti e carabinieri presenti sono evidenti, così come la volontà della questura (personificata dal questore Guida e dal capo dell’Ufficio politico Allegra) di coprire un eventuale omicidio mascherato da suicidio, ipotesi che viene lasciata aperta e possibile.
Per il resto, ci sono accenni ad altre vicende e altre piste investigative che si intrecciarono effettivamente con Piazza Fontana e con i personaggi coinvolti (come la vicenda di Feltrinelli o gli arsenali Nato sul confine orientale), senza approfondirle, ma è comprensibile in un film dove la trama è costruita dal punto di vista di un personaggio particolare (Calabresi).

In generale comunque apprezziamo l’abbandono quasi totale delle tesi assurde e scientificamente scorrette contenute ne “Il segreto di Piazza fontana” di Paolo Cucchiarelli, cui il film dichiara di essere “liberamente ispirato”, utilizzandolo per fortuna molto poco e rimandiamo all’ottima analisi fatta da Aldo Giannuli.

Veniamo ora, al secondo tipo di giudizio. Con tutta l’umiltà che si deve avere in questi casi (soprattutto da parte giovani storici che hanno ancora molto da imparare), riteniamo però necessario muovere alcune critiche al film riflettendo su quale memoria si consegni alle future generazioni.

Da questo punto di vista, infatti, “Romanzo di una strage” risulta fortemente incompleto e semplificato. Pur non essendo critici o esperti cinematografici, riteniamo che l’errore stia alla base: aver scelto Luigi Calabresi come protagonista e quindi assumere il suo come il punto di vista centrale della trama. Per due motivi: il primo, perché non condividiamo l’operazione storica (avviata dal presidente Napolitano nel 2009) di parificare le famiglie e i ruoli dell’anarchico Pinelli e del commissario Calabresi. Le loro storie non si possono intrecciare per quello che i due fecero in vita e per come vennero trattati dallo Stato e dalla società dopo la loro morte. E’ un atto storicamente sbagliato, oltre che scorretto perché elimina qualunque giudizio, da un lato, sull’assurdità della sentenza D’Ambrosio riguardo il “malore attivo” del ferroviere anarchico, dall’altro, sulle responsabilità oggettive che Calabresi aveva sulla morte di Pinelli (come lui, l’intera questura che poi lo abbandonò, intendiamoci). Non stiamo qui giustificando la tragica fine del commissario (su cui ancora non c’è chiarezza), ci mancherebbe; stiamo però dando un parere storico e di buon senso.

Il secondo motivo, è legato al contesto raccontato nel film: è completamente assente la storia sociale e politica. Le parole “Pci” o “Partito comunista” abbiamo l’impressione che non vengano praticamente mai pronunciate, pur essendo il Pci un soggetto centrale nella ricostruzione storica della strategia della tensione e non solo; manca qualunque accenno al ruolo avuto dalla controinformazione, dai movimenti sociali e da quello operaio nell’arginare l’estrema destra, nell’impedire i colpi di Stato e nel denunciare pubblicamente il ruolo avuto dai servizi segreti, dalla Nato, dagli Stati uniti e da numerosi esponenti politici, nello stragismo e nel golpismo. Questi non sono dettagli da specialisti o particolari da professori: sono elementi fondamentali per comprendere la storia di quegli anni e le conseguenze politico-sociali successive, compresi gli assetti e le vicende della cosiddetta “Seconda Repubblica”, in cui la nostra generazione è nata e cresciuta.

La narrazione cinematografica di Giordana, infatti, non permette la comprensione di temi fondamentali: perché il colpo di Stato non ci sarebbe stato; quali uomini delle istituzioni fossero effettivamente coinvolti e quanto; a che livello lo Stato, nelle sue diverse ramificazioni e nei suoi molti apparati di sicurezza, abbia dato il suo appoggio e copertura allo stragismo neofascista e all’oltranzismo atlantista; il legame della strage di Piazza fontana con la guerra fredda e, quindi, il ruolo degli Stati Uniti; le strategie dell’estrema destra all’epoca e le sue azioni anche di piazza; l’evoluzione successiva della strategia della tensione e il senso che Piazza Fontana assume nel contesto successivo.
Questo solo per evidenziare le lacune più grosse, ma si potrebbe proseguire.

Ci si potrebbe obiettare l’argomentazione della finzione cinematografica e delle necessità tecniche che un regista deve affrontare, oltre alla difficoltà di condensare in due ore una trama così complessa. Però, consentiteci: nel momento in cui si decide di raccontare la storia di Piazza Fontana con un film che guarderanno centinaia di migliaia di persone, ci si deve assumere la responsabilità che ne deriva. E rileviamo d’altronde che di film, magari non brevi, ma comunque ben riusciti, capaci di essere completi pur essendo riassuntivi, su storie ed eventi molto intricati è piena la storia del cinema. Per questo diciamo che l’errore di base è prendere Calabresi come punto di partenza: necessariamente la trama che si racconta sarà parziale e incompleta. Perché, piuttosto, non prendere Licia Pinelli o un personaggio anonimo, uno dei tanti che in quegli anni hanno prima subìto, poi affrontato e denunciato stragi, tentativi di golpe e trame eversive dello Stato? Qualcuno in grado di raccontare la vicenda nella sua interezza cronologica e nei suoi aspetti significativi di storia sociale.

Forse, più che Romanzo di una strage si poteva restare fedeli a Pasolini, rendendogli omaggio raccontando “Il romanzo delle stragi” che non riuscì mai a realizzare: il racconto (con prove giuridiche e storiografiche a 43 anni di distanza) dei segreti inconfessabili della Repubblica, com’era sua intenzione dagli accenni che fece nell’omonimo articolo uscito sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974, denunciando non per esigenze politiche, ma storiografiche anzitutto, ruoli, piani e responsabilità.

Tutto questo proprio perché Piazza Fontana non potrà mai essere una fiction, né si possono giustificare con esigenze tecniche mancanze e omissioni.

Il “Patto dell’oblio” e la memoria futura

In Spagna, negli anni successivi alla “caduta” del franchismo nel 1975, si verificò il cosiddetto “pacto de l’olvido” (patto dell’oblio in italiano). Lasciamolo descrivere dallo storico Aldo Giannuli:

“Alcuni parlarono di pacto de l’olvido, in realtà sarebbe più corretto parlare di patto della sordina per tenere il tema lontano dalle dispute politiche, nel timore che questo riaccendesse antichi odi. Infatti i rancori per l’accaduto erano tutt’altro che spenti e la maggior parte degli spagnoli serbava memoria nitida delle offese ricevute dall’altra parte”. (1)

Il pericolo era quello dello scoppio di una nuova guerra civile dopo quella del 1936-39: il regime infatti non era caduto per una sommossa popolare o in seguito ad una guerra, ma per abdicazione da parte del regime militare (che comunque mantenne numerosi privilegi e garanzie), arresosi di fronte alla disastrosa situazione economica e di forzato isolazionismo internazionale del paese. Il conflitto tra i repubblicani antifascisti e la destra franchista e ultraconservatrice era sempre presente, pronto ad esplodere in qualunque momento. Intervenne allora un patto tacito e informale, fatto in nome della ripresa nazionale e del benessere collettivo: mettere da parte gli antichi rancori, tacere processi e rivendicazioni in corso (soprattutto da parte degli sconfitti repubblicani), rinunciare a qualunque accusa pubblica contro l’altra parte. Le istituzioni post-franchiste ebbero un ruolo fondamentale nel pacificare la società e scongiurare il pericolo di nuova guerra civile.

Il “patto dell’oblio”, al di là della Spagna, può essere considerato un fenomeno storico presente in tutte le società contemporanee, in particolare in quelle occidentali ed europee. L’alto grado di politicizzazione dell’opinione pubblica, da dopo la Rivoluzione francese in poi, ha caratterizzato gli eventi degli ultimi due secoli; numerosi sono stati gli episodi legati a scontri intestini ad una società fortemente polarizzata su due posizioni politiche di massima, in netta contrapposizione. Ogniqualvolta le due fazioni sono andate allo scontro c’è stata una parte vincente ed una sconfitta: ovviamente i vincitori hanno costruito un edificio istituzionale, politico e sociale ad essi conforme, cercando di estirpare qualunque resto dell’avversario dalla società, senza mai riuscirci del tutto. Passato un sufficiente periodo di tempo, per motivi anagrafici e politici, di solito si giunge ad una sorta di pacificazione interna tra i vecchi avversari che permette, nonostante le eredità politiche e la memoria continuino ad alimentare scontri e contrapposizioni, l’avvio di una fase nuova. Non stiamo dando un giudizio morale su quanto detto, stiamo descrivendo un fenomeno storico.

Anche l’Italia contemporanea ha avuto il suo patto dell’oblio. Su cosa? Non sulla Resistenza e sulla guerra di liberazione, nella quale (almeno per tutta la Prima repubblica) c’è sempre stato un riconoscimento generale delle istituzioni e della società, quantomeno ufficialmente. Il vero patto dell’oblio la società italiana lo ha firmato sulla stagione delle stragi e dei mancati colpi di Stato, sulla strategia della tensione. Sempre citando Giannuli:

“Una ricostruzione storica puntuale non può non registrare il tacito pacto de l’olvido che chiuse la stagione delle stragi”. (2)

Alla fine degli anni Settanta si esaurisce la “stagione dei movimenti”; nel corso del decennio successivo, si avvia quella fase di transizione e rottura rispetto al passato (determinata anche da eventi internazionali) che porterà ad uno scenario politico-istituzionale e culturale nuovo (la Seconda repubblica). Negli anni Novanta si consolida l’oblio e la pacificazione interna (lo scontro berlusconismo-antiberlusconismo sarà un fenomeno ben diverso, per quanto inevitabilmente determinato dagli eventi storici precedenti). Su Piazza fontana e la strategia della tensione, sul periodo del terrorismo e sul decennio 1968-1978 (decennio di grande mobilitazione e fermento sociale), lo Stato rinuncia ad una versione ufficiale (vedi il nulla di fatto cui giunse la Commissione stragi); a livello di dibattito pubblico e mediatico si giunge a ricostruzione fantasiose, storicamente scorrette, che annullano decenni di indagini giudiziarie e controinformazione politica.

La società italiana, nel 2012, a che punto è?

Ci troviamo in una fase di passaggio: in questi anni stiamo consegnando alle future generazioni quella che sarà la versione insegnata e tramandata della Storia di quegli anni. Certo, ogni storia è soggetta, anche a distanza di molto tempo, a revisioni e modifiche, non esiste mai una versione definitiva. Tuttavia è ora che si gioca la partita fondamentale, quella che definirà la memoria collettiva su quel periodo per il prossimo futuro. Adriano Sofri, nel suo libro scritto in occasione dell’uscita di “Romanzo di una strage”, ricorda in conclusione:

“Non è vero che quella storia continua: è consumata, ed è bene che lo sia. I ventenni, è bene che la sappiano, ma non è e non sarà più la loro”. (3)

Appunto: non è la nostra nel senso che non l’abbiamo vissuta, ma ci appartiene nelle conseguenze che abbiamo volenti o nolenti vissuto e subìto. Per questo è anche nostro dovere raccontarla e contribuire a costruire la memoria consegnata al futuro.

Ed è qui che si inserisce il film di Marco Tullio Giordana. Come dicevamo all’inizio, è d’obbligo il riconoscimento di aver fatto un passo in avanti e di aver almeno raccontato la trama base con correttezza. Pensando a studenti e ragazzi con solo vaghe idee in testa (a volte anche molto sbagliate), riconosciamo al regista e agli attori di aver contribuito a fare un po’ di chiarezza.

Ma il punto è un altro: contribuendo a raccontare una versione così semplificata e mancante sui molti aspetti ricordati prima, si rischia di eliminare completamente quarant’anni di controinformazione e non far mai arrivare nell’opinione pubblica il significativo ruolo avuto da tanti soggetti politici e sociali per impedire che la strategia della tensione riuscisse o che una guerra civile scoppiasse, lacerando definitivamente il paese. La memoria condivisa, tra i protagonisti in contrapposizione di una vicenda, non potrà mai esserci (lo abbiamo detto a proposito di Pinelli e Calabresi); la memoria collettiva, però, è quella che la società nel suo complesso costruisce e manterrà nel futuro.

Sempre Giannuli ricorda il ruolo avuto da cinema e letteratura nel rompere il patto dell’oblio spagnolo:

“Ad aprire i primi squarci nel muro eretto dal pacto de l’olvido, aprendo una riflessione di massa su quel passato, sono stati per primi il cinema e la letteratura, mentre perdurava il silenzio delle fonti ufficiali” (4).

Ovviamente il contesto italiano di oggi è molto diverso da quello spagnolo degli anni Ottanta, così come diversi sono i fatti sui cui è stato preferibile tacere, per sempre o temporaneamente. Ma ci è sembrato giusto chiudere con la considerazione che meritano le forme di comunicazione più “artistiche”, quali potenziali alleate della storiografia nel raccontare, tramandare e consolidare le ricostruzioni storiche, colonne portanti degli immaginari e delle caratteristiche della società in cui viviamo e che lasciamo in eredità alle generazioni future.

a cura di Elio Catania, Lapsus

(1), Aldo Giannuli, L’abuso pubblico della storia, Ugo Guanda Editore, Parma 2009, p. 235

(2), Aldo Giannuli, op. cit., p. 284

(3), Adriano Sofri, 43 anni. Piazza fontana, un libro, un film, 2012, scaricabile da www.43anni.it

(4), Aldo Giannuli, L’abuso pubblico della storia, Ugo Guanda Editore, Parma 2009, p. 235

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Martino Iniziato

Laureato in scienze storiche presso l’università degli studi di Milano con una tesi su Ronald Reagan, ha imparato a fare siti internet quasi per gioco e lo ha trasformato in un quasi-lavoro. Un po' giornalista, un po' cameriere, un po' promotore d'eventi culturali è tra i fondatori dell'Associazione Lapsus e si rivede molto nella definizione springstiniana di "Jack of all trade": tuttofare. Tra le altre cose, è il curatore di questo sito per conto di Tanoma.it. Su twitter è @martinoiniziato

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