Lezione 3: dedalo: come districarsi nel labirinto degli archivi?
Venerdì 5 novembre 2010, 10.30 aula mercalli 32
relatore: Professore Stefano Andrea Twardzik, ricercatore di Archivistica presso l’Università degli Studi di Milano.
E’ possibile ripartire gli istituti che nel nostro Paese conservano rilevanti fonti archivistiche utili agli studi storici in tre grandi gruppi, sulla base di una differenziata tutela che ricevono dallo Stato: la rete degli Archivi di Stato; gli archivi storici di enti pubblici; il multiforme universo di persone fisiche e giuridiche private che conservano archivi storici. E’ chiaro che questa tripartizione ha un rilievo formale e giuridico e non è l’unica proponibile; ha però una sua utilità poiché è la chiave principale per comprendere a grandi linee quali tipologie di archivi sono conservate in quali istituti e quale livello di tutela-protezione tali archivi ricevano da parte degli apparati pubblici. Del resto, è stato osservato che la presenza dei fondi archivistici nei diversi istituti di conservazione o presso il soggetto produttore non è casuale, ma dipende dall’ordinamento giuridico-istituzionale di ogni Stato, ed è per questo che l’organizzazione degli archivi di una determinata nazione ci dice molto del suo assetto istituzionale.
La rete degli Archivi di Stato italiani, oggi articolata tra Archivi di Stato che hanno sede quasi in ogni capoluogo di provincia e l’Archivio centrale dello Stato con sede a Roma, è quella che ha una tradizione più consolidata e che ha contribuito in larga misura alla maturazione di una moderna disciplina che chiamiamo archivistica, Una prima cornice organizzativa relativa agli Archivi di Stato, archivi oggi dipendenti dal Ministero per i beni culturali (istituito nel 1975), e una prima diffusione della loro presenza territoriale prende piede, infatti, nei primi decenni di vita dello Stato unitario, parallelamente quindi al processo di nation building.
Al di là dell’importante cesura storico-istituzionale rappresentata dall’unificazione del Paese, si notano quindi alcune continuità, ravvisabili in un uso delle fonti archivistiche negli anni Trenta-Cinquanta dell’Ottocento che già risponde, come sarà più evidente nel secondo Ottocento, alle istanze dell’erudizione e della ricerca storica oltre che a quelle giuridico-amministrative. La compresenza di queste due valenze è una caratteristica che peraltro connota i documenti d’archivio anche oggi e così sarà anche nel futuro.
Non è un caso, comunque, che solo a seguito di discussioni e dibattiti, soprattutto sullo scorcio del 1870, tra storici-archivisti, funzionari statali e uomini di governo, questa nascente rete degli Archivi di Stato venga affidata a partire dal 1874 alle cure esclusive del Ministero dell’Interno (nel primo quindicennio dell’Unità diversi archivi di Stato dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione).
Secondo il decreto delegato sugli archivi del 1963 (d.p.r. 1409/1963) e secondo l’attuale Codice dei beni culturali del 2004 (d.lgs. 42/2004), gli Archivi di Stato conservano i documenti degli stati preunitari, i documenti degli uffici periferici dello Stato italiano, gli archivi di enti pubblici soppressi, gli archivi di corporazioni religiose soppresse; conservano anche diversi archivi privati donati, venduti, o ceduti allo Stato per lascito testamentario. L’Archivio centrale dello Stato conserva i documenti prodotti dagli organi centrali dello Stato italiano, a partire quindi dal 1861.
Quali sono gli organi centrali dello Stato che non versano all’Archivio centrale, ma hanno un archivio storico separato: Camera dei deputati e Senato della Repubblica, Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale (che però non ha ancora istituito l’archivio storico), Ministero degli Affari Esteri, stati maggiori delle forze armate (dipendenti dal Ministero della Difesa).
Di archivi di enti pubblici come oggetto di una differenziata tutela rispetto agli archivi statali comincia a parlare espressamente solo la legge archivistica del 1939. Se andiamo a leggere i precedenti regolamenti archivistici del 1875, 1902 e 1911 non si parla di archivi di enti pubblici, ma di archivi di corpi o enti morali, ove il termine “corpo morale” si riferisce ai comuni e alle province, alle opere pie, alle camere di commercio, alle accademie culturali. Il motivo è molto semplice: è il nome stesso di ente pubblico che non è ancora entrato, fino almeno al primo decennio del Novecento, nel linguaggio giuridico. La legge del 1939 recepisce quindi, attraverso gli specifici articoli dedicati agli archivi degli enti pubblici, i mutamenti sul piano giuridico e storico intervenuti nei decenni immediatamente precedenti alla sua approvazione, ed estende agli archivi prodotti da questi enti, in modo più capillare rispetto a prima, la tutela dello Stato mediante l’istituzione delle soprintendenze archivistiche.
I documenti degli enti pubblici, così come quelli dello Stato, sono soggetti al regime demaniale, ma il grado di tutela esercitato nei loro confronti da parte dello Stato è inferiore rispetto agli archivi statali. A differenza di questi ultimi, che sono obbligati a versare periodicamente le loro carte negli Archivi di Stato, gli enti pubblici territoriali e non territoriali a norma di legge devono istituire delle separate sezioni d’archivio, cioè degli archivi storici, intesi come strutture funzionali dell’ente destinate a gestire la parte storica dei propri archivi, La tutela statale nei confronti di questi archivi si concretizza nell’attività di vigilanza delle soprintendenze archivistiche, che hanno competenza sul territorio regionale.
Un caso tipico è quello dello scarto, ossia della eliminazione controllata e legale di serie documentarie, operazione tramite la quale una parte del lascito documentario degli uffici/istituti/enti viene, secondo cadenze più o meno determinate, eliminato e un’altra parte viene invece destinata alla conservazione permanente. Le proposte di scarto della documentazione prodotta dagli uffici amministrativi e giudiziari dello Stato sono effettuate periodicamente dalle commissioni di sorveglianza operanti presso gli uffici in questione. In ogni commissione è inserito un archivista di Stato. Invece, gli scarti dei documenti degli enti pubblici sono proposti dagli enti stessi, e devono essere autorizzati dalla soprintendenza archivistica competente per territorio.
Per quanto riguarda gli archivi privati conservati fuori dal recinto degli Archivi di Stato o degli archivi storici di enti pubblici – e sono la maggioranza – occorre premettere che il formalismo che è alla base della nostra legge, porta ad assimilare nella categoria di “archivi privati” l’archivio di un’antica famiglia patrizia a quello di una grande società commerciale, come la Fiat o la Breda, o di un’azienda originariamente a partecipazione statale, come l’Ansaldo o la Finmare (archivi questi ultimi conservati presso la Fondazione Ansaldo di Genova). Come già accennato, il formalismo, che nasconde realtà che richiedono conoscenze storiche e archivistiche assai differenziate, qui è funzionale ad un diverso livello di intervento-protezione dello Stato nei confronti di questi archivi. Per cui, nel caso degli archivi di natura privata, per quanto obiettivamente differenti essi siano, la tutela nei fatti si concretizza solo nel momento della dichiarazione di interesse storico particolarmente importante, un provvedimento amministrativo che obbliga il privato a garantire la conservazione di quello specifico bene archivistico nella prospettiva di una sua fruizione pubblica. Si tratta insomma di un vincolo pubblicistico posto ad una proprietà privata (con una procedura simile a quella applicata per gli altri beni culturali di proprietà privata), vincolo diretto ad evitare il deperimento dell’archivio, il suo smembramento o la sua fuoriuscita dal territorio nazionale.
Archivi privati sono anche quelli gestiti da istituti e fondazioni di diritto privato, che conservano – in genere presso la sede della fondazione – e rendono disponibili agli studiosi diversi archivi privati: per esempio, la già citata Fondazione Ansaldo, l’ISEC di Sesto S. Giovanni, la Fondazione Einaudi (Torino), l’Istituto Sturzo, la Fondazione-Istituto Gramsci (questi ultimi a Roma).
Bisogna sottolineare come anche in questo campo, l’intervento dello Stato è giunto tardi, sempre con la legge archivistica del 1939, che non casualmente viene approvata nello stesso anno in cui entrano in vigore le due leggi Bottai sulla tutela delle cose di interesse storico-artistico e sulla protezione delle bellezze paesaggistiche.
In passato, fino agli anni Ottanta del Novecento le soprintendenze archivistiche non hanno mai esercitato compiti di vigilanza sugli archivi della Chiesa cattolica; ciò a causa di un’interpretazione probabilmente troppo estensiva dell’articolo 30 del Concordato tra Stato e Chiesa, che escludeva ogni ingerenza dello Stato nella gestione dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico o associazione religiosa. Grazie all’accordo di modificazione del Concordato lateranense sottoscritto nel 1984 e reso esecutivo con una legge del 1985, la tutela dei beni culturali ecclesiastici, compresi gli archivi, è regolata oggi da intese tra la Chiesa e lo Stato. Con d.p.r. 16 maggio 2000, n. 189, si è data esecuzione all’intesa tra il ministro per i beni e le attività culturali e il presidente della Conferenza episcopale italiana, relativa alla conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e delle istituzioni ecclesiastiche. In sintesi, gli archivi della Chiesa cattolica (archivi diocesani, di parrocchie, di capitoli, seminari, confraternite, e gli archivi degli ordini religiosi – per la parte non entrata a far parte del patrimonio dello Stato) sono attualmente ancorati alla legislazione statale italiana, e assimilati agli archivi privati per quanto attiene alla vigilanza esercitata dalle soprintendenze archivistiche.
La cosiddetta legge sugli archivi del 1963 conteneva una disposizione che ad occhi non esperti può passare inosservata, ma che invece è molto rilevante ai fini dell’effettiva fruibilità in tempi brevi dei fondi versati negli Archivi di Stato: “gli organi giudiziari e amministrativi versano negli Archivi di Stato i documenti relativi agli affari esauriti da oltre quarant’anni unitamente agli strumenti che ne garantiscono la consultazione” (articolo 23). Se effettivamente applicata, questa norma rende possibile utilizzare negli archivi storici gli strumenti di corredo (rubriche, repertori, schedari, registri di protocollo) già utilizzati dall’ufficio produttore dell’archivio quando questo era strumento dell’attività amministrativa, ovviamente nel caso di archivi originariamente organizzati in modo razionale.
Purtroppo, non sono molto rari i casi in cui non vengono messi a disposizione degli studiosi, nelle sale studio o nelle sale inventari, né elenchi o inventari redatti dagli archivisti di Stato, né gli strumenti di corredo coevi all’archivio.
Alcuni cenni sui limiti legali alla libera consultazione dei documenti:
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio stabilisce (articolo 122) il principio generale della libera consultazione dei documenti conservati negli archivi di Stato, negli archivi storici degli enti pubblici territoriali e in quelli di ogni altro istituto di diritto pubblico, salvo tre eccezioni:
1) i documenti di carattere riservato relativi alla politica interna ed estera dello Stato, che diventano liberamente consultabili 50 anni dopo la loro data;
2) i documenti contenenti dati sensibili e dati relativi a provvedimenti di natura penale, espressamente indicati nella normativa in materia di dati personali, che diventano liberamente consultabili 40 anni dopo la loro data; il termine è di 70 anni se i dati si riferiscono alla salute, alla vita sessuale o a rapporti riservati di tipo familiare;
3) i documenti versati negli Archivi di Stato e nell’Archivio centrale dello Stato in caso di “pericolo di dispersione o di danneggiamento”, anticipatamente rispetto al termine normale dei 40 anni dopo la data di esaurimento degli affari (art. 41 del Codice), che diventano liberamente consultabili alla scadenza del quarantennio.
La stessa disciplina si applica ai fondi archivistici privati acquisiti per dono, lascito, deposito (recte comodato) o acquisto, dagli archivi di Stato e dagli altri archivi pubblici; il privato che dona, vende o lascia in comodato il proprio archivio a questi istituti può però stabilire la condizione della non consultazione di tutti o parte dei documenti dell’ultimo settantennio.
Col successivo articolo 123, il Codice prevede un meccanismo di consultazione anticipata dei documenti indicati nelle prime due eccezioni. Il ministro dell’interno infatti, previo parere del direttore dell’Archivio di Stato competente e udita la Commissione per le questioni inerenti alla consultazione degli atti d’archivio riservati, istituita presso il Ministero dell’interno, può autorizzare per scopi storici la consultazione dei documenti riservati relativi alla politica interna ed estera o protetti dalla normativa sul trattamento dei dati personali, anche prima della scadenza dei 50, 40 e 70 anni previsti dall’articolo 122.