Lezione 4: “c’era una volta…”: potenza e problemi delle testimonianze orali.
Venerdì 12 novembre 2010, 10.30 aula 32, via Mercalli 23
Relatore: Professoressa Roberta Garruccio, Università degli studi di Milano
Trascrizione e rielaborazione della lezione della Prof.ssa Garruccio. A cura di Greta Fedele, La.p.s.u.s.
Alcuni storici sono particolarmente interessati alle trasformazioni che l’economia e il capitalismo hanno conosciuto negli ultimi venti, venticinque anni e sono particolarmente insoddisfatti delle fonti cosiddette tradizionali che molte volte non sono a disposizione dello storico per studiare quest’arco di tempo. Non è detto che la buona storia e la buona storiografia vengano fuori quando la nostra distanza dagli eventi è particolarmente ampia. Lo sappiamo, per esempio, dal fatto che tra le migliori interpretazioni della storia economica del fascismo c’è quella di Piero Grifoni nella metà degli anni quaranta.
Per il lavoro dello storico il più delle volte quello che serve è una particolare rilevanza dei cambiamenti sociali in corso e a fare da detonatore alla riflessione il più delle volte c’è una qualche frattura che interviene. L’ultimo venticinquennio del novecento è un oggetto storico di particolare interesse che ha per lo storico economico un interesse assoluto e che può essere studiato con le fonti orali meglio che con altre fonti, ma allo stesso tempo non necessariamente solo con quest’ultime.
Esiste una disciplina che si chiama storia orale? Non esiste, perché la storia è storia, è quello che fanno gli storici che la dovrebbero fare con tutte le fonti che hanno a disposizione.
Vi vorrei parlare di fonti orali proponendovi di due progetti di ricerca che ho seguito, provando a far emergere considerazioni di ordine generale sul metodo. Da questo discorso spero che emerga cosa intendo come fonti orali e come intendo il lavoro con le fonti orali, quali sono gli scenari di trasformazione che possono essere studiati meglio con questa fonte e quali sono le principali fonti di scetticismo contro l’utilizzo delle fonti orali da parte della storiografia.
Sembrerebbe che la storia della finanza non si presti affatto all’uso di una fonte così soggettiva. In realtà abbiamo lavorato sulla storia della Borsa si Milano nel momento in cui cambiava faccia utilizzando proprio questo tipo di fonte. La Borsa di Milano era situata a palazzo Mezzanotte e fisicamente il mercato di contrattazione e di scambio di titoli finanziari avveniva lì, sul parterre del palazzo. Dagli anni novanta quel parterre è completamente vuoto, perché ci fu nel 1991 una riforma finanziaria dello stato che prevedeva che il mercato fisico dello scambio dei titoli di borsa si esaurisse a favore di una piazza solo virtuale. Questo progetto di studio ci è stato proposto da chi perdeva il lavoro: si trattava di un mondo di ricchi, gli agenti di cambio. Abbiamo perciò provato a studiare l’effetto di questo riforma scegliendo le fonti orali che erano disponibili. Abbiamo scelto di intervistare persone che avessero lavorato a lungo alla Borsa di Milano provando a identificare diverse generazioni e valutando come fossero culturalmente dissimili queste generazioni. L’ultima generazione aveva antropologicamente poco a che vedere con quella che l’aveva preceduta.
Altro esempio potrebbe essere quello della Olivetti il cui tratto distintivo erano le politiche del personale e quindi le ricerche si sono orientate in questo senso. Abbiamo intervistato le persone che alla Olivetti avevano lavorato più a lungo: si è trattato di trenta interviste a persone con carriere lunghe fra gli anni cinquanta e novanta e che si disponevano negli organigrammi dell’azienda in posizione diverse. Questa è ricerca qualitativa essendo i dipendenti della Olivetti molto più numerosi, si parla di centocinquanta mila persone. Altra ricerca interessante è quella sulla Barilla. La Barilla ha rivolto a degli storici una domanda ben precisa: la bakery (invenzione degli anni novanta per diversificare il business, è tutto quello che è sotto il marchio Mulino Bianco) è il nostro settore che va meglio e all’interno di questo c’è uno stabilimento, quello di Melfi, che va meglio di tutti gli altri. Perché? Abbiamo realizzato un centinaio di interviste, la maggior parte in fabbrica fino a salire alla dirigenza. Altro progetto è quello della Pirelli. Il committente è la fondazione Pirelli che ci ha dato un incarico di questo genere: documentare la storia di uno stabilimento glorioso (glorioso per cinquant’anni di successi imprenditoriali, ma anche glorioso per la sua storia operaia), quello di Settimo Torinese, che però l’azienda ha deciso di chiudere. Questo stabilimento chiude e deindustrializza a fronte però di un reinvestimento in un altro stabilimento a cinque km di distanza. Pirelli farà in quel sito lo stabilimento più tecnologicamente avanzato dell’azienda sul panorama globale. Il lavoro non sembra più essere un argomento di interesse per le scienze umane. L’attenzione al lavoro è oggi polarizzata intorno a due situazioni: il lavoro che uccide e il lavoro che viene a mancare. In Italia gli operai sono tutt’altro che spariti, sono circa nove milione, la metà dei quali lavora al nord. Questo ha costituito un motivo in più per andare a intervistare gli operai di Settimo Torinese. Questo genere di ricerca ci spiega un sacco di cose su come si ridefinisce il processo produttivo, su come automatizza il processo produttivo, su come si alzino gli obiettivi di produttività (fare di più e meglio, produrre migliore qualità). L’Italia è un paese dove il costo del lavoro è molto alto quindi ha senso produrre qua solo se si riesce con il capitale umano a fare più qualità. Questo è quello che dice Pirelli; quello che vuole raggiungere non è più il mercato di massa, ma il mercato di alta gamma. Quindi vi è una ridefinizione del processo di produzione e del ruolo dei sindacati.
Il compito dello storico è quello di accettare il peso culturale del presente. Se vogliamo coltivare un’autentica curiosità storiografica non possiamo non essere concentrati su quello che ci sta avvenendo intorno. Ogni buona domanda storiografica è formulata alla luce del presente. Non è detto che le risposte abbiano bisogno di una prospettiva temporale di lungo periodo. L’oralista è particolarmente predisposto, per il tipo di strumento di ricerca con cui lavora, a essere attento alle domande che emergono dal presente.
Cosa possiamo conoscere attraverso le fonti orali? Attraverso le interviste alle persone? E per conoscere come dobbiamo utilizzarle queste fonti? Domanda fondamentale è: quanto è affidabile la memoria? La memoria è oggetto di un’attenzione sempre crescente. Se c’è una popolazione occidentale che diventa sempre più vecchia è ovvio che la memoria diventi un business. Il contenuto della fonte orale che è ricavato utilizzando la memoria da parte del soggetto che ne parla è qualcosa che fa interagire il contenuto dell’evento con i processi di decisione su che cosa dire o cosa tralasciare, indipendentemente da avere dei motivi.
La memoria è fallibile sul quantitativo, su tutto ciò che è misura. Sul senso e sul significato degli eventi per la persona che parla, invece, la memoria è infallibile. La memoria è straordinaria nel riproporre qualcosa che qualcuno faceva per routine, perché è una traccia che viene continuamente scritta. Tutto ciò che è fortemente ritualizzato ha nella memoria un buono strumento per essere ricostruito. Bisogna puntare sulle fonti orali per questo genere di ricerca. L’obiettivo dello storico è trovare tutto quello che costruisce senso e significato.
Pochi lavori sono aperti metodologicamente come quello dell’oralista. Va costruita una certa organizzazione teorica prima di incominciare a intervistare. Una della cose più belle della fonte orale è quella di farsi sorprendere da ciò che ci viene detto perché era qualcosa che non si era pensato in anticipo. È una fonte molto meno predigerita di un sacco di fonti scritte di cui gli storici si fidano, a volte in modo stolto. La costruzione dell’oggetto di ricerca prima di fare l’intervista è certamente necessaria, però le cose più interessanti arrivano nel mentre. Importante è lasciare una traccia del proprio lavoro, perché magari nel futuro ci sarà qualche altro storico a cui potrà servire, per il semplice fatto che ricerche e interviste che abbiamo la possibilità di fare oggi non saranno più possibili domani. Un buon lavoro con le fonti orali è un lavoro ricorsivo: si parte con delle idee e mano a mano che si intervista bisogna ritornarci su, rivederle e arricchirle. L’oralista deve avere l’umiltà di accettare che molto probabilmente le sue idee di partenza verranno sovvertite. Ogni intervista può modificare il corso della ricerca inserendo interrogativi nuovi.
Come limitare i danni alla conoscenza di una fonte così piena di limiti? Questo di nuovo ha a che fare con il metodo con cui si lavora. Bisogna cercare di limitare le domande per limitare il contenuto di suggestione. È importante anche introdurre domande di controllo: se qualcosa non sembra coerente si cerca di riformulare la richiesta per vedere come il soggetto gestisce le due sollecitazioni. Bisogna poi moltiplicare i punti di vista, proprio come nelle narrazioni dei migliori romanzi.
Alcuni oralisti, tra cui Alessandro Portelli, sostengono che la fonte orale è la persona che parla: è sia quello che ci dice, ma è anche il suo corpo. In qualsiasi interazione verbale i segni passano attraverso la parola e attraverso la gestualità. La buona pratica della storiografia è usare tutte le fonti rilevanti che sono disponibili. Ci sono degli oggetti di ricerca per cui le fonti orali sono straordinariamente rilevanti.