Lezione 3: “Le diverse criminalità nell’Italia dell’immediato dopoguerra, periodo: 1945-1958”.
18 marzo 2011, ore 12.30, aula 435
Lezione 3: “Le diverse criminalità nell’Italia dell’immediato dopoguerra, periodo: 1945-1958”.
relatore: Cristiano Armati, autore del volume “Italia criminale”, Newton Compton, 2006.
Mentre nel Centro-Nord, dalla piccola criminalità della sopravvivenza (come la «Ligera») si passa alla nascita delle prime bande organizzate, soprattutto grazie all’arrivo di modelli esteri (Francia e Usa in primis), nel Meridione la situazione è profondamente diversa: si assiste alla rinascita dei gruppi storici già presenti nella zona che, dopo aver stretto contatto con gli americani e Cosa Nostra d’oltre Atlantico, si rafforzano e si pongono come mano armata e di potere in difesa del latifondo, contro le proteste contadine, appoggiate principalmente dalla sinistra.
Trascrizione della lezione.
A cura di Ciro Dovizio, La.p.s.u.s.
Obiettivo di questa lezione è stato quello di approfondire l’evoluzione di taluni aspetti relativi alla criminalità italiana – in particolare in merito alla cosiddetta “criminalità indipendente” – analizzando il periodo storico compreso tra il 1945 (fine del secondo conflitto mondiale) e il 1958, data dell’assalto al portavalori di Via Osoppo. L’episodio, passato alle cronache come la “rapina delle tute blu”, capitanate da Ugo Ciappina, rimase a rappresentare nell’immaginario collettivo un punto di svolta fondamentale, soprattutto per la rilevanza che la dimensione criminale avrebbe assunto nella società italiana da quel momento in poi.
In realtà, se volessimo realizzare una prima classificazione temporale in riferimento all’”Italia criminale”, non potremmo fare a meno di rivolgere l’attenzione al 1944: anno in cui la Sicilia venne liberata dagli alleati. Tale esperienza, puntellata da episodi spesso torbidi e rimasti in certi casi irrisolti anche a decenni di distanza, si configurò quale primo e significativo esempio di come la componente “occulta” del potere, in tutte le sue manifestazioni, sarebbe stata rilevante nelle vicende dell’Italia repubblicana fino ai giorni nostri: dalla stagione delle stragi di Stato a tutti gli altri “misteri d’Italia”.
Nel 1944 la situazione italiana si presentava sostanzialmente catastrofica. In particolare, la Sicilia offriva la cifra riassuntiva degli sconquassi provocati dalla guerra: mentre si perpetravano stragi naziste, ma anche americane (pagina questa, probabilmente meno nota, ma altrettanto reale e drammatica), la popolazione era stata abbandonata a sé stessa e moriva letteralmente di fame. In generale, il costo della vita si era accresciuto in maniera spropositata (23 volte nel periodo ’38-‘45), mentre i salari erano aumentati solo della metà; mediamente si è calcolato che tra il ’45 e il ’48 il 90% del salario venisse destinato all’acquisto di beni primari, soprattutto alimentari. Come se non bastasse, dall’ottobre dello stesso anno l’isola registrava l’inverno più freddo di tutta la sua storia.
Innanzitutto, questa serie di dati, inevitabilmente insufficienti a descrivere in modo adeguato una situazione complessa e multiforme, può comunque essere abbastanza esplicativa della fase estremamente critica attraversata dalla penisola in questi anni. E senz’altro è utile a comprendere il valore e l’importanza che una rapina poteva assumere in tale contesto, e cioè una concreta possibilità di sfuggire alla miseria più assoluta. Considerando poi che nel periodo gli istituti bancari, a differenza di quanto accade attualmente, avevano a disposizione riserve consistenti di liquidi, si comprende la straordinaria propensione alla rapina che l’Italia scopre nell’immediato dopoguerra.
Ma vi furono anche altri fattori che spinsero verso questa direzione: la presenza di larghi strati della popolazione che, a causa del conflitto, erano ormai assuefatti all’uso delle armi, e dunque il disorientamento di numerosi ex militari, che faticavano a trovare un posto adeguato all’interno della società dopo aver vissuto la drammaticità della guerra. Infatti molti dei primi banditi erano stati partigiani, o comunque erano personalità che avevano partecipato a diverse operazioni belliche.
In questo humus cominciarono a organizzarsi le prime grandi bande dell’Italia post-bellica. Alcune erano semplicemente gruppi di giovani disperati, spesso disertori, e così avvezzi all’agire violento da commettere atti di un’atrocità assolutamente gratuita: basti citare ad esempio il celeberrimo massacro di Villa Alba a Torino. Tuttavia la violenza non riguardava solo i criminali, perché era una dimensione largamente diffusa in tutte le sfere della società, tanto da caratterizzare perfino le modalità di intervento delle forze dell’ordine, che frequentemente si spinsero oltre il consentito.
Eppure, accanto a questi raggruppamenti di miserabili si erano strutturati, ed erano nettamente maggioritari, nuclei di carattere diverso, come la già ricordata banda delle “tute blu” di Ugo Ciappina, che includeva tra i suoi elementi anche diversi personaggi appartenenti al cosiddetto clan dei “marsigliesi”: una organizzazione criminale costituita non da un gruppo etnico ben definito, ma da elementi provenienti dalle più disparate comunità etniche che si erano stabilizzate nella città francese: corsi, magrebini, italiani ecc. In ogni caso, molti esponenti delle prime bande erano in parte espressione dell’eredità lasciata dalle formazioni partigiane ma anche dai gruppi armati fascisti. Lo stesso Ciappina, quello che tra i rapinatori del periodo aveva attraversato un percorso politico più ortodosso, era stato comunque uno dei partecipanti agli incontri organizzati da Feltrinelli, volti a pianificare un colpo di stato.
Anche per quanto riguarda la banda Bezzi e Barbieri, fondamentale per il “contributo” dato alle modalità di effettuare le rapine (l’utilizzo di macchine modificate, la ricerca della sfida nei confronti delle forze dell’ordine) valeva questa significativa vicinanza tra ambienti dichiaratamente criminali e frange eversive di movimenti politici, spesso costituite da personalità che avevano svolto un ruolo nel corso del conflitto.
Nonostante la vasta diversificazione che queste forme di raggruppamenti malavitosi conobbero, l’elemento di caratterizzazione forte, che le avrebbe accomunate quanto meno fino al 1960, era rintracciabile nel ricorso estremamente limitato alla violenza. In questo senso lo storico Hobsbawn poneva il contenimento della violenza al primo posto tra gli elementi fondanti il cosiddetto “banditismo sociale”. Nella sua trilogia dedicata all’argomento, emergeva la capacità del bandito sociale, molto spesso involontaria, di operare una effettiva redistribuzione della ricchezza. L’immissione di denaro fresco all’interno di economie asfittiche quali erano quelle delle borgate o dei quartieri periferici delle città, in un periodo di forte depressione dovuto al conflitto, rappresentava indubbiamente un fattore in grado di costruire consenso sociale: in questo modo si poterono creare le prime reti di connivenze tra le bande e le comunità più contigue al loro spazio di attività.
La costruzione del consenso, aspetto imprescindibile per ogni delinquente dotato di intelligenza, e la crescita del volume degli affari, inaugurarono una realtà totalmente nuova rispetto alle precedenti bande di rapinatori. Nel vasto panorama del banditismo, le figure di maggior rilievo furono soprattutto il bandito Giuliano e, anche se meno conosciuto al grane pubblico, il “gobbo del quarticciolo”.
Per quanto riguarda il primo, la storia in cui si trovò implicato è di una complessità tale da renderne molti aspetti ignoti ancora oggi. Venne infatti a trovarsi in uno stretto intreccio di alleanze fra servizi di sicurezza statunitensi e gruppi di estrema destra italiani, in parte coperti da partiti conservatori della neonata Repubblica: un inestricabile groviglio di poteri “occulti”, un’unità di intenti in seguito avrebbe raggiunto lo status vera e propria organizzazione segreta paramilitare, la cosiddetta Gladio, che proprio in quel frangente andava progressivamente strutturandosi. Tuttavia, ed è ciò che qui più interessa, è che con la strage di Portella della Ginestra(1 maggio 1947), Giuliano abdicò di fatto al suo essere bandito sociale, poiché il principio basilare del contenimento della violenza venne meno. Tra l’altro le armi con cui i banditi siciliani spararono erano quelle regolarmente fornite all’esercito italiano, fatto questo di non poco interesse.
E non si fermano a questo gli episodi rimasti irrisolti nel
corso della vicenda, che comunque rimane estremamente articolata e per motivi di spazio non è possibile approfondirne lo sviluppo in questa sede.
Il “gobbo del quarticciolo” (Giuseppe Albano all’anagrafe) invece, fu un personaggio senza dubbio singolare. Di origine calabrese e figlio di un muratore, si era trasferito a Roma in tenera età. Personalità estremamente intelligente e dalla rinomata agilità, divenne famoso già dopo l’8 settembre, quando, a sedici anni, era già schierato in prima linea nella rivolta contro i tedeschi, dimostrando doti da fenomenale combattente. Si pensi che i tedeschi per fermare Albano ordinarono perfino una retata, volta a perquisire tutti i gobbi della città, ma l’affannata ricerca ebbe esito negativo. La sua figura è interessante, analogamente al caso Giuliano, soprattutto perché ad un certo punto fu avvicinato da alcune forze politiche (Unione proletaria, sigla di poca rilevanza), che tentarono di cooptarlo al fine di destabilizzare il movimento operaio ufficiale. Albano in ogni caso non accettò, ma l’aneddoto è sintomatico della situazione di confusione socio-politica generale.
Il ricco scenario del banditismo offriva sicuramente molte altre personalità, di minor rilievo, ma esemplificative di una forma di delinquenza estremamente diffusa. Jim Brown ad esempio, attestatosi in Toscana, era un personaggio di origine statunitense che si specializzò nel furto di autocarri americani, i famosi Dodge. Giuseppe Lamarca, detto il re del Vesuvio, costruì una banda composta unicamente da uomini di colore, fatto sconvolgente per quell’epoca, poiché le popolazioni locali non avevano probabilmente mai visto un uomo di colore e ne potavano essere facilmente intimorite.
Ma al di là del banditismo sociale, fenomeno troppo complesso da poter essere adeguatamente descritto in così breve spazio, gli anni del dopoguerra rappresentarono una fase di transizione fondamentale nell’ambito della criminalità “indipendente” italiana. Infatti si verificò il passaggio dalla rapina tradizionale, legata alla destrezza del delinquente e anche a un certo “sistema di valori”, alla rapina a mano armata, commessa in pieno giorno e strettamente connessa allo scenario socialmente caotico e politicamente disorganico dell’Italia del boom economico. Si formarono in questo modo i primi nuclei di organizzazioni delinquenziali armate, che avrebbero raggiunto in seguito una dimensione e una diffusione ragguardevole, tanto da rappresentare in certi casi una vera e propria piaga sociale. Valga per tutte la banda Cavallero, che insanguinò le strade di Milano durante gli anni Sessanta, inaugurando una stagione di violenze e scorribande che avrebbero dilaniato la città lombarda nel corso dei decenni successivi.