Lezione 5: “Evoluzioni e progressiva integrazione, periodo: anni Ottanta”.
1 aprile 2011, ore 12.30, aula 435.
Lezione 5: “Evoluzioni e progressiva integrazione, periodo: anni Ottanta”.
relatore: Aldo Giannuli, storico, Università degli Studi di Milano.
Il decennio degli Ottanta vede la progressiva integrazione della criminalità organizzata nel tessuto economico-politico della zona più ricca del Paese, andando di pari passo con la trasformazione della figura del boss mafioso in rispettato imprenditore, e con l’espansione degli affari illeciti oltre i confini nazionali, spesso attraverso i circuiti dell’economia legale; a Roma le piccole e separate bande criminali si stanno unificando in un progetto più ampio e inclusivo, avente come scopo quello di prendere pieno possesso della Capitale, stringendo anche numerosi rapporti con soggetti statali o criminali esterni. Nel Sud si avviano i maxi processi di mafia e avviene un cambiamento nei rapporti con lo Stato, che si modificherà ancora in seguito al periodo stragista di inizio anni Novanta. Inevitabile parlare dei contatti che si stanno tessendo anche con l’estero e dei legami fra le attività criminali delle diverse zone del Paese, sempre più dominanti e sempre più radicati nella legalità politico-economica. Con il finire del decennio, viene anche lanciato il discorso sulla globalizzazione e il ruolo delle organizzazioni criminali dentro i processi neoliberisti.
Trascrizione della lezione.
a cura di Ciro Dovizio, La.p.s.u.s.
Per studiare l’evoluzione delle diverse organizzazioni criminali del nostro Paese durante gli anni Ottanta, il primo punto da considerare è il rapporto che intercorre tra politica criminale e politica penale. La prima è la linea che un determinato governo adotta nei confronti del crimine, mentre la seconda è la specifica azione repressiva che si sviluppa all’interno di questa linea, attraverso lo strumento giudiziario e il giudizio penale. Di solito i concetti si confondono, ma in realtà sono diversi: infatti, in un certo senso, la politica criminale include la politica penale, che ne è sostanzialmente l’extrema ratio. Tuttavia, l’idea che il crimine si possa sconfiggere adoperando unicamente mezzi di natura repressiva, che ha avuto molto successo nel secolo scorso pur senza conseguire i risultati sperati, si è rivelata totalmente insufficiente e controproducente nell’età della globalizzazione.
Altro concetto da tenere presente è quello di modernizzazione: la rottura della modernità non riguarda soltanto la struttura economico-politica e giuridica. Non c’è dubbio che la modernizzazione sia stata questo, ma non è detto che debba riguardare esclusivamente tali aspetti. E se consideriamo che il concetto investe tutta la società nel suo complesso, c’è anche una pagina oscura che va compresa. La “rivoluzione criminale” rappresenta l’aspetto della modernizzazione riferita ad attività, per loro stessa natura clandestine e socialmente connotate in senso negativo. In questa prospettiva si parlerà molto di trasformazione della grande criminalità intesa come “processo di modernizzazione del crimine”.
In via preliminare va sottolineata una significativa distinzione tra mafie a grandi organizzazioni criminali. Sul piano globale, di mafie propriamente dette se ne contano una decina, e tutte queste sono grandi organizzazioni criminali, ma non tutte le grandi organizzazioni criminali sono definibili come mafie. La mafia non è semplicemente una grande organizzazione criminale, ma è un particolare modo di essere del grande crimine, che ha dietro di sé connotati particolari: radicamento storico, controllo del territorio, dimensione culturale autonoma (ogni mafia sviluppa un codice etico proprio, impianti para-religiosi ecc.), e solo in un secondo momento queste forme di delinquenza conoscono un processo di razionalizzazione burocratica, scoprono la dimensione organizzativa, weberiana, non legata cioè a rapporti di sangue o a strutture claniche.
Altre organizzazioni criminali, come il cartello di Medellin, o il clan dei Marsigliesi, o ancora la banda di Turatello a Milano, sono grandi organizzazioni ma non sono mafie, perchè non vi si possono rintracciare i caratteri sopracitati.
Le mafie italiane attraversano questa serie di processi di trasformazione tra gli anni ‘60 e ‘70, grazie anche all’incrocio con il ‘68. Il grande sommovimento culturale e politico del 1968 ha provocato un processo di socializzazione politica che ha investito la società nel suo complesso, ed il contatto fra questa cultura della nuova sinistra e il mondo della criminalità ha avuto come sede privilegiata il mondo del carcere e dei penitenziari. Con gli arresti dei primi militanti e poi dei terroristi si è prodotto un fenomeno di politicizzazione del crimine, e anche, reciprocamente, di criminalizzazione della politica. In particolare quest’ultima attraverserà un processo di criminalizzazione molto pronunciato, con il fenomeno della corruzione, vite che annoda delinquenza comune e criminalità organizzata con la criminalità dei colletti bianchi e delle spericolate manovre finanziarie.
E con questa serie di trasformazioni si arriva alle soglie degli anni Ottanta, decennio che vede la crisi e la ristrutturazione della grande criminalità del nostro Paese. Con grande criminalità si fa riferimento alle tre organizzazioni mafiose tradizionali: Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra, a cui vanno aggiunti i gruppi criminali della Banda della Magliana a Roma e quello guidato da Francis Turatello a Milano (tralasciamo la c.d. banda della Comasina di Renato Vallanzasca che, sebbene abbia avuto notevole rilevanza mediatica, sul piano della consistenza economica e politica ha un importanza infinitamente minore).
Tutte queste organizzazioni (con la significativa eccezione della ‘ndrangheta calabrese, che vive un periodo di crescita sotterranea) sono attraversate da violenti conflitti interni, che le portano verso l’auto-dissoluzione, e da un’azione repressiva molto forte da parte dello Stato. Nei primi anni Ottanta il clan Turatello viene massacrato, sgominato in parte dagli arresti: difatti lo stesso capo verrà arrestato, e sarà in seguito assassinato proprio in un penitenziario sardo nell’agosto 1981, ma vengono arrestati anche Ugo Bossi, Franchino Restelli, suoi luogotenenti, mentre Mario Dagnolo emigrerà in Costa Rica per non tornare mai più in Italia. Oltre alla cattura del gruppo dirigente al vertice del clan Turatello, all’interno del gruppo si verifica la defezione di Epaminonda, protagonista della serie di omicidi (a partire da Otello Onofri, “padre spirituale” del capo-clan) che finirà per distruggere definitivamente l’organizzazione criminale attiva a Milano.
Simile la parabola della Banda della Magliana a Roma che, a partire dall’81 registra una serie ininterrotta di omicidi: da Nicolino Selis in poi, fino a Enrico de Pedis, sepolto nel santuario di Sant’Apollinnare, episodio che rappresenta un segnale interessante dell’evoluzione che ha conosciuto la grande criminalità, la quale a un certo punto è in grado di contrattare con centri di potere di grande rilevanza. Anche questo gruppo subisce da un lato colpi molto duri da parte dell’attività repressiva statale, mentre dall’altro finisce anch’esso per implodere dopo una ferocissima guerra interna, che porterà la Banda della Magliana alla dissoluzione (anche se di recente alcuni magistrati sostengono che in realtà l’organizzazione sia ancora attiva, sebbene abbia assunto forme molto più discrete e soprattutto non faccia più ricorso alla violenza).
Stessa cosa accade a Napoli, dove è in piena attività il clan capeggiato da Raffaele Cutolo, probabilmente il protagonista principale della modernizzazione della camorra o almeno colui che ne dà l’avvio. In una lunga intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Marrazzo, divenuta poi un libro (G. Marrazzo, Il Camorrista. Vita segreta di Don Raffaele Cutolo, Tullio Pironti Editore, Milano 1984), è descritta in modo molto chiaro la scoperta della nuova dimensione organizzativa, difatti rispetto alla camorra tradizionale Cutolo fonderà la Nuova Camorra Organizzata, il cui acronimo (NCO), rimanda immediatamente all’esperienza dei disoccupati organizzati di Lotta Continua (LC), che a Napoli avevano una base particolarmente rilevante.
Il clan Cutolo è investito dall’arresto del suo capo, che finisce nel carcere di Ascoli Piceno e che sarà poi coinvolto nel caso Moro prima, e soprattutto nell’affare Cirillo dopo, entrambi rappresentativi del processo di modernizzazione che la criminalità organizzata vive in Italia in quegli anni. La NCO si contrapporrà alla maggior parte dei gruppi camorristici precedentemente attivi sul territorio campano (in particolare i clan Nuvoletta, Bardellino e Alfieri) che, in risposta all’offensiva cutoliana, si riuniranno sotto il cartello denominato Nuova Famiglia, caratterizzato anch’esso da una maggiore razionalità organizzativa rispetto alle esperienze precedenti. La NCO uscirà sconfitta dal conflitto, tanto che a metà del decennio il gruppo è sostanzialmente scomparso, mentre nell’altra fazione si profilano già nuovi scontri interni, tra la fazione dei Nuvoletta e dei Gionta, legati ai corleonesi di Cosa Nostra, e l’alleanza Bardellino-Alfieri, che porteranno ad ulteriori sconvolgimenti nel panorama della camorra in Campania.
Sempre per quanto riguarda la camorra, da una parte essa è attraversata da una conflittualità sanguinosa e dalla repressione delle forze dell’ordine, ma dall’altra riceve un potente stimolo dalla ricostruzione seguita al terremoto del novembre 1980: il sistema degli appalti diventa un’occasione di irrobustimento delle organizzazioni, che percepiscono rivoli di denaro particolarmente consistenti.
Anche Cosa Nostra vive gli anni della cosiddetta “seconda guerra di mafia”, seguita alla prima, che era culminata nella Strage di viale Lazio (10 dicembre 1969). In questa seconda sequela di conflitti usciranno di scena boss storici come Stefano Bontate. Ma soprattutto sulla mafia calerà pesantissima la repressione a seguito del pentimento di Tommaso Buscetta, che darà luogo al “maxiprocesso” del 1986. Nel contempo ci sarà l’operazione militare “Vespri siciliani”, che per la prima volta assesterà un duro colpo al potere territoriale dell’organizzazione, attraverso misure da esercito di occupazione, con blocchi stradali, perquisizioni a tappeto ecc.
È il momento nel quale si pensa che la lotta contro la criminalità organizzata si stia vincendo. Sono stati debellati il clan Turatello, la Banda della Magliana, in parte la camorra, tutto incoraggia verso questa prospettiva entusiastica, anche in seguito all’introduzione del regime carcerario duro (41 bis nel codice di procedura penale) ecc. Ma i primi anni ’90 dimostreranno invece che la mafia si è riorganizzata ed è addirittura più forte di prima. La fase stragista porterà certamente ad altre catture significative, come quella di Salvatore Riina nel 1993, tuttavia la sensazione che si diffonderà sarà la consapevolezza che la criminalità non è stata assolutamente sconfitta, anche se si farà molto più discreta, in genere non ricorrendo più i maniera pesante all’uso della violenza. Lo stesso fenomeno si produce nella nuova mafia nascente, impropriamente definita la “quarta mafia” (si ricordino i caratteri di cui si diceva più sopra, dei quali la mafia pugliese non ne ha che alcuni): la Sacra Corona Unita e i gruppi correlati.
La SCU sul piano organizzativo risulta essere un incrocio tra il clan Turatello, la camorra e la ‘ndrangheta, perché è il prodotto di un innesto su un reticolo criminale del tipo Turatello, di mafiosi e camorristi inviati al soggiorno obbligato in Puglia. Questo provvedimento ha rappresentato una delle politiche criminali più scellerate adoperate dall’autorità statale per reprimere il fenomeno mafioso, che non solo ha avuto scarsi effetti nei territori tradizionalmente considerati ad alta densità mafiosa, ma ha persino contribuito ad esportare tale tipo di criminalità in diverse regioni della penisola: si pensi ad esempio alla mafia del Brenta in Friuli.
Anche in questo caso c’è un momento di guerra feroce fra clan. La città di Bari è divisa tra il clan Montani, che ha la sua roccaforte nel quartiere di S. Paolo, il gruppo attivo nella zona di Bari Vecchia, e il clan di Iapigia, organizzato da Savinuccio Parisi. Per capire i connotati del processo di modernizzazione della criminalità, indubitabilmente il caso di quest’ultima personalità è indubitabilmente emblematico: figlio di una famiglia poverissima, proveniente da un classico quartiere-dormitorio, senza la minima attrattiva, il personaggio è certamente geniale.
Con l’operazione “guerriero balcanico” , che colpirà uno dei traffici del clan Parisi, sarà sequestrata una grande attività commerciale di articoli sportivi. Lo stabile sarà stimato in 125 milioni di euro. Sicuramente non era l’unico esercizio, ma è abbastanza significativo di come Savinuccio Parisi sia stato in grado di costruire una fortuna di centinaia di milioni che non avrebbe mai potuto realizzare diversamente. Inoltre, buona parte di quel denaro è stato investito per realizzare un teatro, un parco acquatico e altre strutture di natura ricreativa e para-culturale, tutti nell’ambito del suo quartiere nativo.
Senza dubbio queste operazioni erano da addebitare alla necessità di riciclare denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, ma in una intervista Parisi dichiarò che l’aveva fatto per dare ai bambini del quartiere ciò che lui non aveva potuto avere durante l’infanzia. Si nota quindi nel personaggio una certa vocazione sociale, si può capire quanto discutibile, e che va comunque considerata, senza semplicisticamente ridurne la portata alle strategie adottate dal classico gangster per rendersi meno individuabile con l’investimento in attività legali.
L’importanza dell’episodio segnala come la rivoluzione criminale sia qualcosa di enormemente più complesso del semplice fenomeno anti-sociale da reprimere. Ovviamente c’è, ed è anche maggioritaria, una dimensione di devianza e di anti-socialità che necessita di un’attività repressiva continuata, ma bisogna fare attenzione a non ridurre tutto soltanto a questo aspetto. Perché nell’insuccesso della grande spallata richiamata, questo errore è stato importante: l’incomprensione della criminalità come grande fenomeno sociale. Sarebbe auspicabile e necessario abituarsi ad applicare, in termini di metodo, la categoria weberiana di “avalutatività” nell’analisi della criminalità, prescindendo per un attimo dal ridurne la rilevanza a mera devianza anti-sociale. Per capire davvero è necessario sospendere il criterio etico e morale, perchè spinge verso un tipo di comprensione unidirezionale che si rivela totalmente insufficiente.
La trasformazione del crimine negli anni Ottanta è stata di fondamentale importanza e può essere ricondotta a tre diverse direzioni principali:
1) La direzione organizzativa. La criminalità si è data dei macro apparati organizzativi, del tutto simili al processo di concentrazione finanziaria e a quello relativo allo sviluppo di grandi apparati aziendali transnazionali e di grandi coordinamenti interstatali: si pensi a tecnostrutture come ai coordinamenti di polizia o come il FMI o l’UE. Le grandi trasformazioni portano sempre dietro di sé le proprie ombre, e in questo caso l’evoluzione della criminalità andrebbe intesa quale riflesso speculare della modernizzazione attraversata sia dalla società nel suo complesso, sia dalle modalità di interazione che aziende, stati, economie hanno conosciuto a partire dalla seconda metà del XX secolo. Seguendo questa prospettiva si spiega perchè la nascita dell’iper-capitalismo finanziario ha come ombra la nascita di macro apparati criminali.
2) La direzione espansiva transazionale. Bisogna ricordare che tra organizzazioni ci sono sempre stati rapporti, specie grazie all’immigrazione, anche se spesso non continuativi: si pensi alla mafia che deteneva fin dalle origini rapporti con Cosa Nostra americana, e che queste due realtà hanno avviato in diversi periodi lucrose attività di traffico internazionale di droga, soprattutto di eroina. Ma con gli anni ’80 il fenomeno si generalizza. Si pensi alla ‘ndrangheta, che ha fortissime direzioni di sviluppo in Australia, Canada, Germania ecc. Si pensi a Cosa Nostra che ha stabili radici in Sudamerica e in Spagna. Ma anche l’intreccio fra organizzazioni provenienti da paesi anche molto distanti (ad esempio le triadi cinesi) non ha provocato, se non in rarissimi casi, conflitti importanti, perché la tendenza generale è quella della convivenza e della collusione, anche perché la dimensione territoriale va cedendo nei confronti della dimensione internazionale.
3) La direzione della forte “finanziarizzazione” della mafia, dovuto in parte all’ingente accumulo di risorse che le organizzazioni hanno conseguito, e in parte all’apertura che il capitale finanziario ha rivolto alle masse di denaro di provenienza illecita. Queste non potevano rimanere inutilizzate, vennero così richiamate all’interno del mercato finanziario. Fino all’inizio degli anni ’70 il mafioso aspirava con i suoi traffici aspirava a creare una fortuna familiare da investire in terreni, palazzi, immobili in città, e più raramente in preziosi, anche perché allora la concezione della ricchezza era legata a qualcosa di tangibile, di concreto. Tuttavia, con l’arrivo dei proventi del traffico di narcotici e poi con appalti e sequestri, le masse di denaro si fanno troppo consistenti, e occorre tesaurizzare diversamente: così nel ’92 la Corte dei Conti stimava che il 15% del debito pubblico italiano fosse nelle mani delle organizzazioni criminali. E questo fu solo l’inizio della trasformazione in senso finanziario. In seguito le mafie conosceranno un rapporto molto più sistematico col mondo della finanzia, e ciò rappresenta un aspetto sintomatico. Infatti, a differenza dei vecchi capimafia come Riina, Provenzano, Liggio, che non erano soliti lasciare il proprio territorio, ora Matteo Messina Denaro, considerato il numero uno di Cosa Nostra ancora a piede libero, secondo le informative non è in Sicilia, ma a Londra, e frequenta la City.
Va considerato che, rispetto al periodo dell’avvocato Sindona, che collocava il denaro mafioso in attività finanziaria, e che non era un mafioso in senso stretto, oggi è proprio la grande organizzazione che si struttura attraverso propri “uffici finanziari”.
Anche osservando i figli dei grandi boss si trovano persone colte, mandati a studiare nei migliori istituti al mondo. C’è quindi una trasformazione della mafia come grande interfaccia del capitale finanziario. In altre parti del mondo poi ci si trova di fronte a dinamiche ancora più significative (i c.d. narco-stati in Sudamerica, alle vicende legate alla mafia russa), questo perché si sono aperte nuove e particolarmente lucrose vie di sviluppo all’investimento illegale: si pensi al traffico di scorie radioattive (si ricordi il contrabbando di grano radioattivo avviato dopo Cernobyl, realizzato dai Casillo, che possedevano latifondi soprattutto nel foggiano), il traffico di esseri umani, il racket della prostituzione ecc.
Dunque c’è un aumento della dimensione dell’affare criminale, ma si assiste anche ad un ricorso notevolmente inferiore alla violenza, e ad una vocazione imprenditoriale molto pronunciata, tanto da rendere quasi più indistinguibili attività legali e attività pesantemente infiltrate da soggetti criminali.
Il fallimento è da ascrivere all’errore di pensare che l’unico contrasto al crimine sia rappresentato dalla politica penale. Soprattutto nella società della globalizzazione, se le radici dei fenomeni sociali, economici, politici che hanno generato un certo comportamento restano, tale comportamento si riprodurrà. C’è stata una fondamentale incomprensione sociologica ed economica del fenomeno criminale che tuttora perdura. Per esemplificare tale incapacità di comprendere bastino due esempi.
Primo. La principale attività che ha reso la mafia un soggetto della grande finanza e dai grandi capitali è stato il business della droga, con il quale è stato pagato il prezzo del proibizionismo. In questo caso la società si è dimostrata meno moderna del crimine, perché non ha capito la distinzione tra l’immorale e l’illegale, poiché non tutto ciò che è illegale è immorale e, reciprocamente, non tutto quello che è immorale deve essere anche illegale. Infatti vi sono molte cose discutibili sul piano morale, ma non per questo è auspicabile una loro repressione in sede legale. Spesso si pensa che la capacità repressiva dello stato sia infinita, ma in realtà non è così, perché per quanto possano essere aumentate, le risorse dedicate in questa direzione non possono essere infinite, per cui aver deciso di considerare solo in termini repressivi il fenomeno delle tossicodipendenze, che è eminentemente culturale, ha prodotto tre importanti conseguenze: in primo luogo si è consentita un’accumulazione originaria spaventosa a vantaggio della criminalità organizzata, in secondo luogo ha distratto la politica penale e impedito efficaci azioni di contrasto verso altri reati, ed è stato infine totalmente inefficace dal punto di vista sociale. Infatti, è accaduto che il fenomeno si è sviluppato secondo logiche culturali interne: è caduto il consumo di eroina, droga ansiolitica, a favore della cocaina, per sua natura attivizzante
Secondo. La campagna per proibire i subappalti, nata dalla consapevolezza di assistere ad una grande penetrazione del settore edilizio da parte delle mafie, risultò totalmente inefficace, perché il business non era fondato che superficialmente sul contratto di subappalto, infatti era molto più pesantemente centrato su quello di “nolo e fornitura” per il movimento terra, ossia relativo alle prime fasi di costruzione. Inoltre, la specializzazione del movimento terra ha implicato la necessaria conoscenza del territorio, che ha consentito di avviare altre attività illecite rilevanti come lo scarico dei rifiuti o, nel caso della ‘ndrangheta, ha permesso un’agile individuazione dei siti più adatti all’occultamento dei sequestrati. Questo è un esempio di come la mancanza di studio del fenomeno, la sommarietà del giudizio, l’idea di risolvere il problema unicamente in chiave repressiva producano una serie di effetti assolutamente devastanti, non contrastando il fenomeno e in qualche modo, paradossalmente, facilitandone l’ulteriore radicamento, sviluppo e trasformazione.
Per concludere, questi rappresentano solo due esempi, ma se ne potrebbero fare tanti altri, di che cosa significhi e che cosa comporti affrontare il problema della “rivoluzione criminale” nella società della globalizzazione.