70° della Liberazione: ha senso cantare e ballare?
Danilo De Biasio, voce storica di Radio Popolare, con cui nella primavera del 2014 abbiamo realizzato il progetto “Autista moravo“, in occasione del 100° anniversario della Grande Guerra, risponde all’articolo del nostro Elio Catania, dedicato al 70° della Liberazione ed alla “memoria pulita”. Ringraziamo Danilo per l’attenzione dimostrataci e auspichiamo arrivino preso altri contributi. Buona lettura!
Di Danilo De Biasio, Radio Popolare. Dal 25 aprile mi domando cosa ha permesso la riuscita di un’iniziativa come #liberidiballare, una serata di ballo – come fece il primo sindaco della Milano liberata dai nazifascisti – organizzata da Radio Popolare, Anpi, Arci e Insmli. Giuro che non è uno spot, ma una domanda che riguarda profondamente il tema che giustamente pone Elio Catania: è possibile ricostruire la storia (recente) di una nazione senza cadere in forme di revisionismo o di sterilizzazione? La mia risposta è sì,si può fare.
Quando nel settembre 2014 ho cominciato a proporre ai dirigenti di Radiopop l’idea di Radio Milano Liberata (la trasmissione che ha partorito l’iniziativa #liberidiballare) ho pensato fosse giusto partire proprio da quello che Elio Catania nomina come pericolo: “l’elemento umano e individuale tanto di moda“. Il rischio – dice – è “un grande carnevale”. Ma credo sia un rischio da affrontare, se non si vuole affidare alle solite star della divulgazione il compito di tramandarci la storia.
Insieme ai miei colleghi abbiamo cominciato a raccogliere gli elementi che ci permettessero di fornire un quadro il più possibile coerente di quel complesso di eventi che chiamiamo Resistenza e che – banale dirlo – ha anche un prima e un dopo. E’ stato un gioco delicato: togliere un attentato dei Gap, dimenticarsi del prete che nascondeva le armi dei partigiani, oscurare il ruolo della Guardia di Finanza nella Liberazione di Milano, non citare le avanzate anglo-americane da Sud e quelle sovietiche da Est equivaleva ad una falsificazione. Però ci sembrava giusto partire da lì, confermando quel legame emotivo – umano e individuale, appunto – che permette di avvicinarsi alla storia come fosse una storia. Solo così abbiamo scoperto che il problema principale dei partigiani erano le scarpe, come ci ha raccontato la partigiana Laura Fabbri Wronoski, «perché ci piagavano i piedi e noi scarpinavamo parecchio»: poco eroico, forse, ma molto concreto.
Insieme alla contestualizzazione, garantita da un pool di storici (Gigi Borgomaneri, Giovanni Scirocco, Daniela Saresella, Alfredo Canavero, Guido Formigoni, Andrea Ricciardi, Andrea Saccoman per citarne alcuni), abbiamo usato fonti dirette e – come dite voi storici – coeve: le canzoni originali che si sentivano alla radio opportunamente spiegate, le canzoni partigiane come erano state tramandate nella tradizione orale fino agli anni ‘60, gli articoli dei giornali clandestini.
L’impatto era volutamente e oggettivamente emotivo, voleva avvicinare il più possibile l’ascoltatore a quelle vicende di settant’anni prima. Ma non ci siamo fermati alla superficie, perché saremmo diventati complici di quel revisionismo light, come dice Elio, “una memoria ripulita dalla conflittualità e dalla politica, dalla complessità, dalle responsabilità”. Quelle responsabilità invocate si evidenziano non nascondendo nulla. Un esempio può aiutare a capire cosa intendo: la violenza.
La violenza è insita nella guerra, ma viene spesso espulsa dalla narrazione o accreditata solo ad una parte. Abbiamo affrontato il tema parlando fin da subito di terrorismo per spiegare le azioni dei Gap. Gigi Borgomaneri, sceglie bene le parole quando ci porta in via Fratelli Bronzetti per farci vedere il luogo dove il 18 dicembre 1943 i gappisti realizzano il colpo grosso, ammazzando il Federale di Milano Aldo Resega: «le pratiche usate dai Gap, gli esplosivi nei locali frequentati dal nemico o l’uccisione di personalità disarmate si può definire terrorismo». Fondamentale aggiungere che il capo del fascismo milanese è stato ucciso l’ultimo giorno di un lungo sciopero generale, era dunque cercato il gesto clamoroso, che non si potesse nascondere. Perché le azioni precedenti dei Gap erano state messe sotto silenzio da parte dei nazisti, interessati a mantenere la pace sociale e sfruttare al massimo le capacità produttive delle fabbriche milanesi. Scatterà la vendetta fascista, 8 fucilati. I gappisti e i loro responsabili politici cercavano proprio questo, è “l’autolesionismo premeditato” che un partigiano come Giorgio Bocca ha sempre rivendicato come necessario?
Ha provato a rispondere – sempre nella trasmissione Radio Milano Liberata – lo storico Santo Peli, che ci porta a Firenze, il 1° dicembre 1943. La data è importante: è il giorno dopo il termine per la presentazione delle classi di leva 1923-1925. Gino Gobbi, il comandante del distretto militare, viene freddato sull’uscio di casa. Nella notte i fascisti fucilano 10 antifascisti. «Ha senso ammazzare un fascista se poi si vendicano e ammazzano 10 antifascisti? Presentata così la risposta è no – argomenta Santo Peli – ma se invece consideri che uccidendo chi dirige il distretto militare mandi un segnale a tutti i potenziali renitenti alla leva, che la Rsi è fragile e si può colpire, allora la risposta cambia». Lezione di base per gli storici, forse, ma in tempi di “revisionismo light” non scontata.
Ancora lo storico Santo Peli spiega che «non si può e non si deve giudicare l’azione in sé, ma occorre vedere il flusso di giovani renitenti alla leva che saliranno in montagna diventando la base del partigianato. E domandarsi se ci sarebbe stato senza quel gesto violento, senza l’uccisione di quell’uomo disarmato».
Torniamo al punto di partenza: cosa ha convinto migliaia di persone in oltre 150 luoghi in tutta Italia a trovarsi a ballare la sera del 24 aprile come forma di omaggio a chi ha combattuto i nazifascisti? Radio Popolare e i suoi partner non hanno edulcorato la storia, non l’hanno ridotta a favoletta: hanno evidenziato che 70 anni fa, alla fine di un fenomeno militare e politico complesso e non sempre lineare, una grande parte della popolazione ha festeggiato la fine di una guerra, di una occupazione straniera, di una dittatura (patriottica, civile, di classe, le tre guerre di cui parlava Norberto Bobbio).
Ma la festa a cui ci siamo ispirati era qualcosa di più: era l’intuizione geniale di Antonio Greppi, un sindaco anomalo (socialista, cattolico, drammaturgo) che ha capito che solo con un gesto simbolico – un grande ballo collettivo – poteva provare, due mesi dopo la Liberazione, a far tacere le armi e indicare un futuro comune. In un contesto politico e sociale come quello che subiamo nel 2015, abbiamo pensato che si dovesse affrontare di petto il rischio di “un grande carnevale”, senza rinunciare ad un millimetro di serietà storiografica. Così come – se ci sarà l’occasione – affronteremo la lettura della storia più recente, per non lasciarla a chi ha già in mente di farne una fiction seriale.
Danilo De Biasio
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