Il dibattito in corso sulla crisi ed il futuro delle Scienze Umanistiche
a cura di Kristian Tarussio, Associazione Lapsus
Milano, 10 aprile 2014
Senza pretese di esaustività, ci proponiamo in questo articolo di dare una breve visione d’insieme riguardo il dibattito sulla crisi ed il futuro delle Scienze Umanistiche che si è sviluppato, a più riprese, negli ultimi mesi in Italia e non solo. Dibattito che è senza ombra di dubbio complesso. Quello che ci preme rilevare al momento è che sia positivo sottolineare, al di là delle posizioni in campo, come dagli stessi addetti ai lavori parta un certo malessere riguardo allo stato delle discipline umanistiche. La speranza è che a questo dibattito faccia seguito un vero confronto, con l’obiettivo di rimodulare il rapporto con le altre discipline, con la premessa imprescindibile di un serio “esame di coscienza” dei nostri ambiti di studio, poiché siamo convinti, come Associazione Lapsus, che anche da qui partirà la strada per riportare la storia al centro di un’analisi culturale completa e competente.
Il 23 dicembre 2013 la rivista Il Mulino ha pubblicato un appello che ha fatto discutere ed ha contribuito ad alimentare, in modo rilevante, il confronto che da qualche tempo a questa parte si è sviluppato attorno al tema delle scienze umanistiche. I firmatari della proposta, esponenti di spicco del mondo accademico ed intellettuale italiano (Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito) ben riflettono le diverse anime della categoria “scienze umanistiche” – letteraria, storica e filosofica – facendole convergere su un terreno comune.
Quello che emerge in modo forte da questo appello è la situazione di crisi nella quale versano le discipline umanistiche. Secondo gli autori non è peculiare del solo umanesimo, ma investe in modo più generale l’intero “retaggio culturale” italiano, del quale l’umanesimo è trave portante. Non è un caso che le discipline umanistiche siano sempre più in difficoltà sul lato della “formazione delle élite”, ruolo che era connaturato a questa formazione.
Il problema prende corpo soprattutto all’interno dell’istruzione scolastica, nella quale emerge la scarsa considerazione degli studenti. Questo è in buona parte risultato delle scriteriate politiche legate all’istruzione, tese a considerare la scuola come settore nel quale si può, e si deve, far economia, grazie a una programmazione mossa lungo due direttrici – quella della crescente tecnicizzazione (con buona pace del personale scolastico) e quella del crescente peso dell’ambito tecnologico-scientifico, “avvolto nell’involucro di un’informe, e non di rado retorica, pedagogia civica (educazione alla Costituzione, all’affettività ecc.) a scapito dei contenuti “umanistici” tradizionali” (cit.).
Su ricerca ed università, la critica è ben chiara: il sistema 3+2 ha contribuito a sdoganare l’istruzione superiore, e le discipline umanistiche si sono rese protagoniste in questo, esaltando la specializzazione, la supposta pretesa di scientificità per alcuni ambiti della conoscenza, la critica ad un percorso formativo oramai sminuito. La principale preoccupazione degli autori è insita nel rapporto che loro ritrovano fra rimozione del passato e crisi del futuro, della quale viene portato come esempio principe il patrimonio artistico abbandonato progressivamente in balia del tempo. La tradizione umanistica è dunque letta in un’ottica “particolarista”, di difesa della memoria e del patrimonio culturale di diverse specificità, contro un supposto universalismo delle scienze matematiche e sperimentali, viste intrinsecamente omologatrici. Questo viene ricordato anche nella parte di appello dedicato alla valutazione della ricerca, impostata su modalità di “denazionalizzazione della cultura e di omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato”.
In conclusione, quella che emerge dall’appello è una forte preoccupazione legata al contesto nazionale. Ossia: in un contesto culturale che sminuisce le peculiarità italiane (e il richiamo identitario, in questo, è molto forte), quale può essere il futuro dell’Italia stessa?
Il documento ha sollevato diverse risposte. Massimo Adinolfi, sul Messaggero del 5 gennaio, ha commentato positivamente la riflessione, riprendendo l’idea di una politica odierna inadeguata a causa dello scollamento dalle proprie radici profondamente umaniste. Di tutt’altro parere il sociologo Luciano Pellicani, che nel libro “Contro la modernità” sostiene alcuni punti dei firmatari de “Il Mulino” per quanto riguarda una serie di problemi riconosciuti di estrema importanza, come la valutazione dei titoli scientifici, ma tira anche una stoccata proprio a quella cultura umanistica che, in passato, ha contribuito in modo rilevante a formare la classe politica odierna, colpevole di sottovalutare l’impatto nella vita sociale e politica da parte delle scienze sperimentali. La sua paura è quella di una tradizione umanistica che si vorrebbe ancora più ripiegata in sé stessa, e non aperta alle “contaminazioni”, idea diffusa a suo parere nella grande maggioranza degli studiosi del campo umanistico, nonostante alcuni lavori di Esposito vadano in direzione contraria.
Remo Ceserani pone il problema in un’ottica differente. A suo avviso, la dicotomia scienze umane / scienze sperimentali è da superare, poiché tra questi due blocchi culturali sussiste un’unità di intenti, pur in forme profondamente diverse. Ciò che bisognerebbe considerare (e Ceserani lo fa partendo dalla situazione americana, contesto nel quale questa tensione è già esplicita da anni ma il cui riverbero si è già iniziato a sentire da tempo anche in Italia) è che in realtà i veri contendenti sono le discipline “professionali” (l’esempio sono ingegneria, medicina, scienze della formazione e scienze politiche), maggiormente spendibili sul mercato del lavoro e profondamente diverse nella loro costituzione per quanto riguarda l’attività di ricerca e di finanziamenti.
Se buona parte della discussione ha come fulcro la sopravvivenza stessa delle discipline umanistiche, alcune riflessioni rilevanti hanno cercato di collegare questa problematica con quella dell’implementazione di nuove tecnologie nell’ambito dell’insegnamento e della produzione culturale. Dianora Bardi, su “Il sole 24 ore” del 12 gennaio, ha rimarcato il momento di transizione che la scuola italiana sta attraversando. Secondo l’autrice il momento è maturo, stando però attenti a non riversare nelle aule mezzi tecnologicamente all’avanguardia solo per una mera questione estetica, ma valorizzandoli prendendo in considerazione i progetti sperimentali che in alcune scuole vanno sempre più concretizzandosi (come l’Istituto comprensivo Bruno di Osimo). Nello stesso numero de “Il sole 24 ore”, Claudio Giunta prende spunto proprio da questo argomento per allargare il discorso e analizzare più in profondità il fenomeno “digitale”, il quale investe le scuole e la cultura più in generale, ma anche un mercato di consumo che si è sviluppato ed è strettamente connesso sia alle problematiche delle nuove tecnologie, sia a quelle della “cultura 2.0”.
In particolare Giunta si sofferma sull’editoria e sui provvedimenti che il Governo italiano ha promulgato per cercare di mediare tra “vecchi” e “nuovi” sistemi di diffusione culturale. Le “Misure per favorire la diffusione della lettura”, contenuto nel provvedimento Destinazione Italia, scontenta sia l’editoria tradizionale, sia chi sta investendo nel digitale e nella crescita del mercato degli e-book, dando l’impressione che le istituzioni non stiano effettivamente cogliendo il peculiare contesto odierno. L’importante, afferma Giunta, non è tanto che si debba passare in toto tramite una fruizione digitale, anzi: se davvero l’obiettivo è quello di formare nuovi lettori, specie chi non ha la possibilità di leggere, allora i mezzi sono le buone, vecchie biblioteche, sia scolastiche che cittadine, accompagnando a queste la formazione di bibliotecari e insegnanti in grado di muoversi con profitto su entrambi i fronti: in questo è necessario dare maggiori competenze “informatizzanti” anche a studenti che, all’università, prediligono le discipline umanistiche.
Il dibattito si è arricchito anche di contributi legati alla crisi della disciplina storia, ossia quella cui siamo più vicini come Associazione Lapsus e all’interno della quale lavoriamo. Simonetta Fiori, su “La Repubblica” del 6 febbraio, prendendo come spunto il disegno di legge contro il negazionismo prova a tracciare un quadro d’insieme. Il problema, rilevato dall’autrice, è la delegittimazione della storiografia “ufficiale” a favore di ricostruzioni più o meno fantasiose che prendono luogo grazie, ad esempio, alla “fiction storica”. È questo il contatto che, ad oggi, le persone hanno con la storia, progressivamente svuotata anche dal suo ruolo di “consigliere del principe”, scalzata da discipline maggiormente d’appeal come l’economia. A questa crisi, percepita all’esterno, si aggiungono anche le crepe interne: un’accademia scarsamente in grado di coordinarsi con culture storiche altre, chiusa in se stessa all’interno dei confini sia nazionali che disciplinari. Un allarme che lo stesso ex-presidente della SISSCO Graziosi ha lanciato, rilevando la fortissima presenza che temi “ingombranti” dal punto di vista storiografico, come fascismo, colonialismo e resistenza, ancora possiedono.
Un “requiem per la storiografia italiana”, come è stato definito dai contributi di Eugenio Di Rienzo e Aurelio Musi (pubblicati all’interno del blog “La nostra storia” su www.corriere.it, gestito da Dino Messina, il 9 febbraio), sostanzialmente fallace. Il motivo è semplice: “una storiografia di respiro internazionale è tale soltanto se è in grado di spaziare dall’Eurasia all’Africa Settentrionale, al Medio e all’Estremo Oriente o lo è, invece, a patto di porre il problema storico in una prospettiva autenticamente internazionale?” Il problema sta quindi di trovare un contesto generale al quale agganciare l’argomento particolare, cosa che, a loro parere, la storiografia italiana ancora esegue con profitto.
a cura di Kristian Tarussio, Associazione Lapsus
Milano, 10 aprile 2014
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