Il 70° della Liberazione e la “memoria pulita”
In queste settimane si sono svolte in tutto il paese e a tutti i livelli (istituzionali, società civile, organizzazioni politiche) iniziative e celebrazioni in occasione dei 70 anni della Liberazione, con apice ovviamente nella giornata di sabato 25 aprile. Ad ascoltare i discorsi di questi giorni e i loro contenuti è emersa una strana sensazione ed una strana nostalgia: quasi ci fosse la consapevolezza diffusa che questo decennale potrebbe essere l’ultimo con i combattenti dell’epoca, quasi che i 70 anni sanciscano definitivamente il famoso <<passaggio di consegne>>.
Noi ovviamente auguriamo lunga vita a tutti i partigiani e a tutti i reduci della guerra di Liberazione e delle deportazioni nei campi di sterminio, ma ragionando in termini storici la reale consegna della memoria avviene quando i testimoni e i sopravvissuti di un evento considerato periodizzante per la storia di una comunità vengono meno e si allenta definitivamente il legame emotivo; da quel momento in poi la rielaborazione assume nuovi strumenti e nuove forme a fini identitari e pedagogici del ricordo storico.
Memoria storica e contesto politico: il mito resistenziale
Osservando e ascoltando in particolare i discorsi mediatici e istituzionali di questo 25 aprile 2015, non possiamo che muovere alcune considerazioni riguardo il senso ed il significato di questa nuova operazione di uso pubblico della storia. Che nessuno si scandalizzi se parliamo, appunto, di “uso pubblico”: lo abbiamo detto più volte in questi anni, la Storia in quanto tale è la sua dimensione pubblica (politica, pedagogica, identitaria).
In Italia, dal 1945 in avanti, il mito fondativo dello Stato democratico e della repubblica è stata considerata la Resistenza e la guerra di Liberazione: memoria condivisa e consolidata in particolare nei primi trent’anni, fino alla metà degli anni Settanta, attraverso la costruzione di una mitologia pubblica che portasse il popolo italiano ad identificarsi totalmente nei valori repubblicani e antifascisti, operando al tempo stesso una cesura netta della storia patria dal Ventennio fascista. Con l’evolvere del contesto politico e sociale (parliamo qui del compromesso storico, della fine della pregiudiziale anticomunista che aveva dominato i primi decenni di vita repubblicana, dell’apertura alle e delle sinistre verso il blocco di potere dominante), si venne a creare un terreno più fertile riguardo la critica di alcuni tabù (ad esempio, la negazione della dimensione di guerra civile dei venti mesi della Resistenza; piuttosto che la fine dell’immagine della Liberazione come iniziativa di un popolo alla macchia) che resero la ricostruzione di quel periodo più storicamente corretta e, ad averne fatto un utilizzo onesto, per certi versi più inattaccabile e solida di fronte ai nascenti propositi revisionisti.
Poi però il contesto politico, nazionale e internazionale, mutò ulteriormente ed una nuova tendenza storiografica più in linea con il corso politico post-Guerra fredda si cominciò ad affermare: un’interpretazione che voleva la Storia finita assieme ai conflitti sociali e internazionali, grazie all’affermazione del nuovo ordine monopolare a indirizzo liberista. Inutile dire quanto sia risultata insensata, già da pochissimo tempo dopo la sua elaborazione nei primi Novanta, questa interpretazione. Al tempo stesso nella contingenza italiana la fine dell’arco costituzionale, l’ingresso delle destre di origine neofascista nel governo e nelle istituzioni, l’aumento della distanza generazionale ha fatto sì che la memoria resistenziale si logorasse definitivamente: non soltanto infatti nella società, ma ora anche a livello istituzionale la Liberazione non era più considerata patrimonio comune.
Tutto ciò inaugurò un ventennio di pesante revisionismo storico: la logica della guerra civile portata all’estremo, con la progressiva equiparazione tra partigiani e repubblichini e la tentata riabilitazione di questi ultimi; la retorica neoliberale che accusava una presunta egemonia delle sinistre di aver “blindato” la memoria storica su tutto il Novecento (compreso quindi il periodo della Resistenza), ora sotto processo in quanto “secolo delle ideologie, dei totalitarismi, dei genocidi ecc ecc”, a seconda delle esigenze; la conseguente equiparazione tra comunismo e nazifascismo, con la tendenza a marcare ovviamente di più sui crimini del primo, considerato “graziato” nei decenni precedenti. Ovviamente il revisionismo su Resistenza, Seconda guerra mondiale e Novecento ha aperto la strada a tutta una serie di controversie storiche su altri periodi dell’Italia repubblicana, su cui abbiamo già scritto a lungo e quindi non ci soffermeremo in questa sede.
Questa serie di elementi ha portato al logoramento della memoria resistenziale quale secondo momento fondativo dell’identità italiana (dopo il Risorgimento, anch’esso tuttavia in crisi anche se per altri motivi), inaugurando una fase di passaggio tuttora in corso in cui risulta piuttosto difficile identificare una memoria condivisa unica: abbiamo infatti assistito alla nascita di miti fondativi minori a sfondo etnico e al rifiuto netto, da parte di consistenti settori generazionali e politici, della Resistenza partigiana come patrimonio comune.
Qual è la situazione oggi? Dal revisionismo politico alla <<memoria pulita>>
Dopo l’assalto degli anni Novanta e del primo decennio Duemila, il revisionismo più aggressivo pare aver perso terreno, nonostante i suoi germi più moderati abbiamo sedimentato e sortito effetti.
Già dal discorso del 25 aprile 2009 dell’ex premier Silvio Berlusconi (storicamente a capo di una coalizione politica che non ha mai dichiarato di avere tra i suoi valori fondativi l’antifascismo) abbiamo assistito ad un particolare cambio di rotta: un’appropriazione e al tempo uno svuotamento del significato storico Liberazione.
Appropriazione del radicamento e della potenza evocativa che in ogni caso il periodo della Seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazifascista continuano a mantenere nella memoria pubblica, da parte di quella classe dirigente e quelle organizzazioni politiche meno legate, appunto, alla storia della Resistenza e dell’antifascismo; svuotamento perchè, se un tempo con “Liberazione” si intendeva nello specifico quella operata dalla guerra partigiana e dall’insurrezione popolare cui ha condotto (certo con il supporto delle truppe angloamericane e grazie all’andamento generale del conflitto internazionale), ora “Liberazione” si riferisce a tutti gli episodi e a tutti gli attori che in un modo o nell’altro hanno combattuto contro i tedeschi e il fascismo. Coprendo di fatto la dimensione popolare e partigiana della guerra.
Di più: l’utilizzo massiccio del termine generico Libertà ha aiutato a rimuovere la politicità specifica della guerra di Liberazione, legata non solo alla cacciata dell’oppressore straniero e fascista, ma anche e soprattutto alla rifondazione di Stato e società su basi repubblicane ed egualitarie (intese come valori chiave dell’antifascismo).
Questa tendenza ha assunto sempre più forza negli ultimi anni, trasformando di fatto il 25 aprile in una sorta di festa della libertà, con i tratti tipici di un “carnevale laico”. Il discorso pubblico e istituzionale in occasione del Settantesimo è stato ben espresso dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dallo speciale Rai condotto da Fabio Fazio. In tutti e tre i casi il grande rimosso è la politica: nessun cenno all’elemento conflittuale e alla grande complessità socio-politica dell’antifascismo; nessun riferimento alla tanto controversa fase di passaggio dall’unità antifascista all’emergenza anticomunista del Dopoguerra, con i suoi episodi di restaurazione morbida operata in particolare dall’allora ministro degli Interni Scelba contro gli esponenti della Resistenza nei posti-chiave delle istituzioni e dello Stato.
La Liberazione viene presentata, appunto, come un grande carnevale, certamente tragico, che raccoglie contesti e soggetti diversi del periodo 1943-45, privilegiando l’elemento umano e individuale tanto di moda. Il tutto inserito in un racconto che vuole quei venti mesi separati dal prima e dal dopo, caratterizzati da una non meglio definita voglia di libertà astorica, che in una linea retta attraversa questi 70 anni senza intoppi, per arrivare al nostro attuale contesto politico.
Le parole chiave non sono più, come nella Carta (testamento della Resistenza secondo Piero Calamandrei), uguaglianza, fratellanza e solidarietà ma #ilcoraggiodi, la bellezza dell’Italia, la trasversalità garantita dall’impoliticità della lotta. E potremmo proseguire.
Così come la voglia di libertà, generica e astorica, crea la premessa (presente nel discorso istituzionale e mediatico) per la condanna morale di tutti i totalitarismi, tracciando collegamenti e analogie tra nazifascismo, stalinismo e il movimento comunista più in generale.
Un’operazione di revisionismo light, meno sfacciato e radicale, meno politico, in linea con la nuova fase del Partito della Nazione inaugurata da Matteo Renzi e le sue esigenze di pacificazione e normalizzazione. Una memoria ripulita dalla conflittualità e dalla politica, dalla complessità, dalle responsabilità, appiattita sull’anacronismo interessato e sulle esigenze del presente. La distanza generazionale garantisce l’assenza di profondità storica; le lusinghe interessate alle associazioni partigiane e dei sopravvissuti neutralizzano le critiche più forti che si potrebbero generare.
Non è un caso infatti che a Milano, capitale del 25 aprile, il tradizionale corteo sia stato anticipato dall’inaugurazione della nuova Casa della Memoria: un’altra operazione di abuso pubblico della Storia molto pericolosa che, trattando di un periodo diverso da quello resistenziale, si inserisce nel più ampio mosaico di depoliticizzazione del Novecento attraverso la condanna morale di tutto ciò che di violento c’è stato nel passato, associando sotto lo stesso tetto soggetti, fenomeni, episodi storici molto differenti tra loro (Segnaliamo a riguardo l’articolo a cura di Offtopic).
Noi però, come aspiranti storici, non vogliamo dimenticare che una dimensione chiave della Storia è proprio la politica come luogo di incontro, conflitto e trasformazione. Non è storiograficamente corretto ridurre la Resistenza alla sola data del 25 aprile, separandola dal prima e soprattutto dal dopo: i veri parametri di misura del significato storico della Liberazione. Non è corretto nemmeno creare un calderone dentro cui inserire tutti i protagonisti e gli attori di quel periodo, senza distinguere ruoli e finalità.
Noi non sappiamo se il tempo delle identità nazionali consolidate e condivise sia finito, né se la memoria resistenziale potrà recuperare in futuro quel peso necessario a renderla il collante generazionale e sociale del paese. Sappiamo però che, nel momento del passaggio di consegne è più che mai necessario definire con precisione il senso storico e la forma della memoria che si vuole consegnare alle generazioni future.
Elio Catania, Lapsus
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