La repressione del dissenso nell’Italia Liberale

moti_milano_2Ovvero come il potere conservò se stesso, nello Stato di diritto.

Ciclo di articoli a cura di Margherita D’Andrea, tra Storia e Diritto dell’Italia Liberale.

Indice
1) Introduzione.

2) Anno domini 1861: le espressioni del potere politico nella seconda metà del secolo XIX.

3) La nuova società civile tra modernità e arretratezza sociale (postilla sulla questione meridionale).

4) Chiesa, dogma e lotta di classe.

5) Bibliografia.

1) Introduzione

Francesco de Sanctis sosteneva in un suo scritto (L’Uomo del Guicciardini) che, per capire certe cose profonde degli eventi del passato, non occorre tanto «la sagacia e la diligenza dello storico», quanto, anche, «l’occhio del metafisico». La metafisica, nel senso del pensiero che regge gli avvenimenti, è il gomitolo di Arianna che in questo lavoro trova il sentiero (ci prova) nel complesso intreccio tra potere, istituzioni e società civile, nel periodo di costruzione dell’Unità italiana datata 1861.

E’ pacifico, tra storici e giuristi, che l’architettura del nuovo Stato presentava sia in fatto che in diritto molte fragilità: l’attitudine a mantenere elementi (soprattutto in materia penale) intrisi di evidenti contraddizioni rispetto ai principi del liberalismo minò nelle fondamenta, e avrebbe continuato a farlo, la struttura istituzionale complessiva, e in uno l’aspirazione all’identità del cittadino “moderno”.

L’atteggiamento delle istituzioni di fronte al dissenso politico e sociale, in particolare, è sintomatico della difficoltà con la quale furono gestiti i nuovi concetti di libertà dallo Stato, eguaglianza formale, legalità; in ciò, un punto d’osservazione senz’altro privilegiato è appunto il diritto penale, in quanto strumento particolarmente agile del potere per il controllo, attraverso la repressione, di attività individuali e collettive pericolose alla sua conservazione, a prescindere dalla funzione essenziale di difesa della legalità e della pace sociale. Certe connessioni pragmatiche tra la regola di diritto, il principio e le ragioni del potere sono state evidenziate da molti giuristi attenti. Ad esempio, Luigi Ferrajoli, negli anni ottanta del novecento, impostò buona parte del corposo saggio “Diritto e Ragione” sullo svelamento del significato di un certo modo d’evoluzione delle parole del diritto.

Se si pensa ai concetti di “positivo” e “positivismo”, alla loro traduzione normativa in “giustizia formale”, e alla successiva trasformazione interpretativa (dietro al paravento dello stesso principio normativo) che ne diedero i Ferri e i Lombroso – per giustificare la prevenzione penale nei confronti di certi soggetti -, se ne può forse avere una prima idea.

Quest’indagine intende in special modo occuparsi della questione dei reati politici e dei delitti di sciopero, nel quadro di una situazione di conflitto politico-sociale crescente rispetto ai primi anni d’Unità, e di risposte governative conservatrici, quando non apertamente reazionarie (è il caso della feroce repressione dei moti di Milano del 1898, durante i quali il generale Bava Beccaris diede l’ordine di sparare sulla folla, provocando un numero alto, mai precisato, di vittime). Infatti, l’evoluzione dei delitti di sciopero e del reato politico in senso liberale, ma con riserva, cristallizzati nel rispettabilissimo codice Zanardelli del 1889, dimostra l’incoerenza con la quale le istituzioni, sorde alle istanze di miglioramento sociale e di autonomia culturale, trattarono la materia. Si potrebbe, e dovrebbe, discutere certamente a lungo intorno alle funzioni di scelte di questo tipo. E tuttavia il pensiero corre facile a un punto: il potere perpetua se stesso. Talvolta, poi, lo fa ad ogni costo.

Il punto è che il codice penale dell’epoca liberale contiene elementi che, considerati con la dovuta avvedutezza, ostano alla tutela e al mantenimento delle essenziali condizioni di libertà giuridica e morale, indiscriminatamente ed effettivamente.  In questo senso, vale l’esempio del delitto tentato, per il quale si previde, con  specifico riferimento ai reati politici, un’anticipazione della soglia di punibilità.

Ciò nulla toglie, si badi, alla fondatezza delle tante posizioni storiografiche recenti (tra gli altri: Romanelli e Mario Sbriccoli) che si attestano sull’ idea della consonanza delle norme del codice penale liberale con i principi successivamente impiantati nella Costituzione repubblicana; tant’è, si osserva, l’impianto generale di Zanardelli, riprodotto nel codice Rocco del 1930,  rimase indenne all’esperienza del fascismo, arrivando sino a noi.

La sfaccettata varietà di giudizi in merito è, anzi, probabilmente il segno della tensione irriducibile e insieme del fascino del periodo liberale, in quanto denso di tragedie sociali e di fermenti culturali. Perché fu il momento in cui venne teorizzato e reso norma il rispetto per la dignità del singolo, e allo stesso tempo si determinò una pericolosa alienazione dello stesso dalla comunità. Infine, perché si costruirono i diritti di libertà, eppure il liberalismo mantenne in sé, e produsse, i germi di un futuro di terrore.

di Margherita D’Andrea

Indice
1) Introduzione.
2) Anno domini 1861: le espressioni del potere politico nella seconda metà del secolo XIX.
3) La nuova società civile tra modernità e arretratezza sociale (postilla sulla questione meridionale).
4) Chiesa, dogma e lotta di classe.
5) Bibliografia.

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Margherita D'Andrea

Avvocato, vive a Napoli dopo aver visto Milano. Partecipa al progetto '900 criminale.

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