Questo autunno ci siamo trovati di fronte ad una nuova sfida. Come strutturare un laboratorio didattico nato per le scuole che si collochi in un contesto informale ed artistico? Lapsus è stata coinvolta dall’associazione di Sesto San Giovanni Dire Fare Dare in un progetto sfaccettato con l’obiettivo di instaurare un dialogo con la cittadinanza sulla reale conoscenza della criminalità organizzata.
Asse del progetto è la realizzazione di uno spettacolo sui temi dell’antimafia e sui suoi protagonisti, organizzato e ideato con ragazzi e ragazze – dai 14 ai 19 anni – durante il corso di teatro di Dire Fare Dare.
Il laboratorio 900 Criminale si è dovuto quindi modificare in base alle nuove esigenze. In primis il gruppo coinvolto: non una classe, ma ragazzi di età e con storie tra loro differenti. In secondo luogo un nuovo obiettivo didattico. Gli incontri infatti, oltre a portare conoscenze storiche sul tema ma al contempo fungere da stimolo per l’ideazione e la scrittura dello spettacolo. Abbiamo quindi deciso di focalizzarci su due aspetti principali, che a nostro avviso sono fondamentali per la realizzazione di uno spettacolo che voglia parlare da e con un pubblico giovane: il linguaggio e lo stereotipo.
Siamo partiti da loro, dai giovani “attori”, per costruire attraverso i loro stereotipi cosa fosse “la Mafia”. Ci siamo trovati davanti a idee che, sebbene mediate e influenzate dalle immagini cinematografiche, rivelavano la sensibilità con cui i ragazzi riuscivano ad “immedesimarsi” nei differenti contesti, individuando le ragioni sociali ed economiche che possono spingere gli individui ad affiliarsi o a sostenere organizzazioni criminali mafiose.
Più complesso per loro è stato definire le caratteristiche di un affiliato: i nomi degli esponenti della criminalità organizzata più tristemente celebri erano quasi sconosciuti. Se un nome come Messina Denaro, Cutolo o Liggio poco diceva ai ragazzi, molto invece della loro idea di mafioso venivano tratte dal mondo delle serie o film. Dallo stecchino tenuto in bocca da Joe Pesci in “Quei bravi ragazzi” ai silenzi eloquenti del “Il Padrino”; dagli adolescenti da paranza dei Savastano nella serie “Gomorra” passando per le ville di “Scarface”.
Dalle loro immagini siamo quindi andati a individuare quelle caratteristiche principali che permettono di distinguere le mafie da altri attori della scena criminale mondiale. Riunire sotto un’unica etichetta soggetti, comportamenti ed entità diversi è un’operazione praticamente inefficace, perché non aiuta a comprendere ciò che distingue e pone un ostacolo alla ricerca di soluzioni adeguate per contrastarlo. Le immagini della mafia poste a livello pubblico sono state spesso parziali, deformanti, e hanno creato degli stereotipi, dei luoghi comuni dannosi sia per la comprensione del fenomeno, sia per l’approntamento di efficaci strumenti di contrasto.
A questo tema, si è aggiunto anche un confronto con i ragazzi sulle immagini che le organizzazioni danno di sé stesse e sulle caratteristiche che il linguaggio interno ai gruppi mafiosi assume. L’insistenza sui temi della rappresentazione è divenuto centrale, proprio per il tipo di progetto in cui i ragazzi sono coinvolti. Come presentare un prodotto culturale senza ricadere in stereotipi fuorvianti? Come esporre contenuti validi e fondati senza rinunciare alla rappresentazione artistica?
I ragazzi ci hanno dato alcune risposte a queste domande proprio durante il laboratorio, mettendo “in scena” brevi monologhi tratti da alcune storie di antimafia sociale scritte dal collettivo Cannibali e Re. Monologhi in prima o seconda persona, nei quali i ragazzi hanno interpretato i protagonisti delle storie o anche punti di vista esterni a queste. Mai banalizzando la narrazione e ricadendo nei pericolosi stereotipi che abbiamo cercato di rompere. I giovani attori hanno ridato voce a coloro che hanno combattuto le organizzazioni mafiose dal basso, spesso senza nessun appoggio da parte delle autorità, e senza essere “eroi”: magistrati, alti funzionari e politici importanti.
I ragazzi si sono quindi riappropriati di storie a loro più vicine, almeno per quella che è l’età e la traiettoria di vita dei protagonisti, fino all’incontro con la criminalità organizzata, dando voce al concetto che l’antimafia possa e debba essere fatta da tutti.
In questi mesi abbiamo lavorato duramente alla stesura di questo libro collettivo, scritto in vista del 50° anniversario della strage di #piazzaFontana.
Pubblicato con Mimesis Edizioni, questo volume è il frutto di un processo collettivo, figlio di un meditato e faticoso lavoro di elaborazione e sistematizzazione di alcuni spunti di indagine storica sorti, in un decennio, nell’ambito di innumerevoli seminari, conferenze, mostre, eventi di divulgazione e momenti di appassionata discussione e confronto.
Un libro che, anche se non lo direste, è anzitutto un lavoro di storia del tempo presente, per riflettere su conseguenze e storture del principale nodo irrisolto dell’età repubblicana, che chiamiamo “strategia della tensione”, a partire dall’uso pubblico che si è scelto di fare della strage del 12 dicembre 1969.
Su un evento spartiacque e fortemente divisivo si misurano le politiche della memoria e le politiche dell’oblio, dove fra queste spicca la totale assenza di memoria sulla guerra fredda. Questo conflitto anomalo, non dichiarato, a bassa intensità, ha avuto, ancora più di altri, la verità come vittima sacrificale. Nell’immediato, nessuno ha letto Piazza Fontana come episodio (incontrollato) di guerra fredda. Di certo, dopo i primi mesi, appare sempre più evidente come il taglio interpretativo dell’evento sia stato funzionale a logiche di schieramento e a concordate convenienze.
Mercoledì 17 Aprile 2019 | Università Statale di Milano, Via Festa del Perdono, 3 | ORE 16.30 – AULA 102
Prosegue il ciclo di lectio magistralis inaugurato nel 2016. Quest’anno si presenta la lezione del professor Edoardo Tortarolo (Università del Piemonte Orientale) dal titolo: Italia-Germania relazione pericolosa o affinità elettiva?
Iniziativa in collaborazione con: Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti | Casa della Cultura | Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea | Fondazione Isec | Fondazione Memoria della Deportazione | Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea | Istituto Lombardo di Storia Contemporanea | Istituto Nazionale Ferruccio Parri | Lapsus – Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo | Palazzo Moriggia – Museo del Risorgimento
Martedì 9 aprile | h. 20.30 | Lato B, Viale Pasubio, 14 – Milano
Salvador Allende
Cosa rimane della memoria cilena di Salvador Allende? Cosa ha comportato, nel concreto, il compromesso che ha normalizzato la dittatura cilena? In che modo ci parla ancora del Cile e dell’America Latina attuale?
Sopra il vostro settembre è il progetto di public history che riannoda dal basso i fili della storia cilena e dà voce a storie rimosse o poco conosciute, esemplificative di un fenomeno collettivo che ha riguardato circa 1 milione di profughi in 17 anni: la repressione, la resistenza, l’esilio, il ritorno.
*************************************** Per l’ingresso nel circolo è necessaria la sola tessera LatoB, che si può richiedere compilando il modulo online al seguente link ➔ http://www.preadesione.latobmilano.it/
Il costo della tessera è di 3 euro, il suo ritiro avverrà prima della serata e vi consentirà di accedere a tutte le attività dell’associazione e di usufruire dei beni della stessa fino alla fine dell’anno sociale corrente.
Quest’estate insieme a una banda capitanata da Zona K e formata da noi, Stratagemmi/Prospettive teatrali e Stanze (grazie a Teatro Alkaest), abbiamo vinto il bando Cariplo – Partecipazione Culturale. Si tratta di un percorso multidisciplinare e sfaccettato che vede collaborare queste quattro diverse realtà, ognuna con la sua anima e le sue discipline, allo scopo di aumentare la partecipazione delle fasce più giovani della popolazione milanese alla vita culturale. All’interno del gruppo, Lapsus ha strutturato il suo intervento tenendo assieme alcuni degli scopi che più ci stanno a cuore.
Il progetto prevede ampio spazio per la formazione: una parte, dedicata agli studenti universitari, affidata a Stratagemmi, l’altra a Lapsus. Protagonisti, più che spettatori, sono i ragazzi e le ragazze di una terza superiore in alternanza scuola lavoro. Va detto che non amiamo l’alternanza e proprio per questo abbiamo cercato di costruire un progetto che potesse offrire delle reali prospettive di apertura sul mondo culturale, sia dal punto di vista formativo che professionale, fuori dalle logiche di sfruttamento del lavoro gratuito degli studenti.
La classe viene coinvolta in un percorso di 90 ore, articolato su più di un anno: si parte adesso e si finirà a dicembre 2019, seguendo lo sviluppo dei focus tematici di Zona K. Per Lapsus la possibilità di progettare un’attività didattica continuativa per un monte ore così ampio è un’occasione preziosa per sperimentare metodi didattici più efficaci sulla “lunga durata”, al di fuori dei soliti laboratori da poche ore, e per mettere alla prova i nostri metodi di simulazione didattica / didattica ludica. La visione degli spettacoli sarà sempre accompagnata da laboratori di approfondimento che ne esplorano argomenti e modalità di realizzazione, anche confrontandosi con chi lavora “dentro” al teatro. La contestualizzazione storica degli argomenti degli spettacoli parte sempre dal presente, coerentemente con la nostra caratteristica impostazione didattica e divulgativa.
La storia per processi
Le quattro parole su cui ci concentreremo (MEDIA, MONEY, POLITICS e ECOLOGY) ci permetteranno di partire da temi stringenti del presente, approfondirne il senso, le cause, le interpretazioni e le trasformazioni nel corso della storia contemporanea e infine di portare avanti un ragionamento critico su come questi possano influire sul nostro futuro. Per questo da sempre consideriamo limitante la storia evenemenziale, preferendo al suo posto la storia per processi perché questa procede attraverso una transizione continua, in cui “fenomeni ed eventi, motivazioni e accidentalità, fattori ambientali e umani, contrasti e coincidenze si intrecciano, si urtano, rimbalzano, si deformano, scompaiono e riappaiono, influenzati da rapporti di causalità, come dalle perturbazioni della causalità e si attuano secondo svolgimenti previsti e imprevedibili.” (R. Dondarini)
Gli spettacoli diventano così la “messa a terra” di un discorso più ampio che porti a una maggiore riflessione critica, a una diversa lettura di quanto si apprende nella quotidianità e – perché no? – a una consapevolezza diversa delle proprie possibilità. L’obiettivo è che questa esperienza possa essere da stimolo per una presa di coscienza politica nel senso ampio del termine, inteso sia come impegno responsabile nel contesto di una comunità sia come partecipazione attiva.
Prova generale dello spettacolo Hate Radio, a cui abbiamo assistito insieme alla classe coinvolta nel progetto.
Coinvolgimento reale del pubblico. Da passivo ad attivo e propositivo
Per tutta la durata del percorso i ragazzi e le ragazze saranno coinvolti nella realizzazione di un progetto di comunicazione culturale. Sarà possibile realizzare interviste ai registi, performers, producers, maestranze tecniche, scenografi, artisti, lavoratori della cultura, ecc. per capire meglio come funziona l’industria culturale e come trovare le parole giuste per raccontarla a chi non lo sa. Tutte le informazioni raccolte saranno convogliate in un prodotto concordato con la classe, che potrà assumere varie forme, anche combinate tra loro (es. elaborati artistici, performance, mini-documentari, ecc.) con lo scopo di diventare protagonisti della formazione del pubblico culturale. Il tentativo è quello di creare un processo circolare tra formazione, partecipazione e restituzione pubblica dell’esperienza.
Multidisciplinarietà
Lapsus è un laboratorio, non solo perché ci piace la parola. Fin dalla nostra nascita come collettivo abbiamo sempre puntato ad una divulgazione il più accessibile e partecipativa possibile, sperimentando metodi e approcci diversi e lavorando a stretto contatto con linguaggi e professionalità differenti dalla nostra. Lo scopo è come sempre aggiungere complessità alla storia, con mezzi e strumenti diversi. Per questo siamo felici di poter collaborare con chi nella vita si occupa di altro – come in questo caso il produttore teatrale, l’attore, il critico, il regista, l’insegnante, il social media manager – ma che, come noi, lavorando con attenzione e sensibilità verso il presente non riesce a non evocare il passato.
Intervento di Zeno Gaiaschi (Lapsus) al panel #6 – scuola del convegno “La public history in Lombardia. Un seminario su metodi e pratiche”.
Oggi vorrei impostare il mio discorso su una dimensione operativa, recuperando alcune suggestioni introdotte da David Bidussa stamattina e provando a mettere in fila degli stimoli di riflessione a partire dalla nostra esperienza. Mi scuseranno i colleghi se dirò alcune banalità o questioni assodate nel panorama intellettuale degli storici; tuttavia il lavoro di ricerca ci ha abituati a “fare sempre un passo indietro” quando ci troviamo di fronte ad un problema, così da ottenere un angolo di visuale necessariamente ampio, che ci permetta di capire dove abbiamo “toppato”. E a nostro avviso con la didattica della storia abbiamo decisamente un problema.
Il problema, in soldoni, è questo:
Che senso ha studiare la storia? A che cosa serve?
La domanda non è provocatoria e vorrei che la prendeste come uno stimolo, perché è la domanda davanti alla quale ci siamo trovati davanti decine di volte al nostro arrivo in una nuova classe, soprattutto quelle di contesti più complicati.
Noi storici non siamo nuovi a questo quesito, no? Ma quanto davvero sappiamo dare una risposta a tutti quelli che si collocano fuori dai nostri convegni?
Questo è un po’ il punto di partenza, che è politico, nel senso che ha a che fare con la capacità di incidere nel presente e con le scelte, individuali e collettive. E la nostra scelta, consapevole e ostinata, è stata fin dall’inizio quella di generare impatto sociale e di farlo attraverso la conoscenza della storia.
Sì ma come? Innanzitutto assumendo un atteggiamento di ricerca simile a quello dell’etnografo: per capire come intervenire su un contesto è necessario prima osservare ed “entrare” nel contesto. Laboratorio Lapsus è un’associazione culturale dal 2011 ma è operativa sul territorio e nelle scuole da quando era poco più che un collettivo universitario di studenti di storia. Fin da subito la scuola ha catalizzato la nostra attenzione, in due direzioni.
Sia come ambito di intervento operativo, dove andare ad applicare quelle pratiche di “comunicazione storica” o di “storia pubblica” – come la chiamavamo allora – che potevano trasformare l’insegnamento della disciplina e aiutare a quell’annosa domanda;
sia come campo di ricerca, ossia un luogo privilegiato (per certi versi) da studiare con la lente dello scienziato sociale, con un approccio volto a capire cosa non funzionasse (e non funzioni, tutt’ora) nell’insegnamento della storia nelle classi, con l’obiettivo di capire meglio alcune tendenze che si manifestavano all’epoca, ma si manifestano tutt’oggi nella società.
Quindi ci siamo messi in ascolto e abbiamo cercato di intercettare le frequenze delle necessità di chi vive la scuola (insegnanti e studenti); dei nostri coeatanei, che ne sono usciti e hanno intrapreso studi superiori ma anche e soprattutto chi ha scelto o si è trovato nella condizione di non farlo; delle persone con cui entravamo in contatto durante le iniziative pubbliche che promuovevamo in università e sul territorio, in contesti ufficiali e non.
“Cittadino, studente, insegnante! Cosa non capisci del mondo contemporaneo? Che “pezzo ti manca”? Come posso io, da storico, mettermi al tuo servizio per condividere ciò che ho appreso?”
Laboratorio Lapsus ha sempre avuto quindi questo obiettivo politico: stimolare in coloro con cui interagiamo l’acquisizione di un metodo, perché chi lavora con la storia ha il privilegio di padroneggiare innanzitutto l’indagine critica, prima ancora che la conoscenza fattuale. Un metodo che fosse un motore di innesco per attivare quel ragionamento critico necessario per sfatare gli stereotipi e sbrogliare le matasse comunicative più ingarbugliate di cui è piena la nostra contemporaneità.
La costruzione concettuale dei percorsi didattici che utilizziamo è debitrice a diverse discipline, perché siamo convinti che un solo metodo non sia più sufficiente (se mai lo è stato) per comprendere il mondo contemporaneo: attingiamo quindi alla sociologia, all’antropologia, alle scienze politiche, alla geopolitica, all’economia, alla psicologia, alla pedagogia, alle scienze della comunicazione e a tutti i linguaggi che ci sembrano più utili, contaminando le nostre competenze e conoscenze ma anche imbarcando nella nostra squadra di lavoro ricercatori, operatori culturali e professionisti con diverse formazioni, che condividono con noi questo approccio aperto allo studio del passato.
Poste queste poche premesse, entrerei quindi nel vivo di “cosa facciamo”, portando un esempio che speriamo essere esplicativo:
Parlerò del laboratorio didattico “Come cambia la guerra nel Novecento”un percorso strutturato in 5 incontri di taglio laboratoriale, destinato agli studenti della scuola media.
Il progetto di questo laboratorio è nato da un’esigenza: dopo gli attentati terroristici del 2015 a opera dell’Isis, diverse scuole ci hanno contattato per cercare di fare chiarezza nel mare magnum delle informazioni che stavano proliferando sul Medioriente. Dopo alcuni interventi nelle Assemblee di Istituto, abbiamo pensato di raccogliere gli stimoli derivati dalle molte domande degli studenti e delle studentesse e formalizzarli in un percorso che potesse offrire qualche punto di riferimento per comprendere i presupposti e le trasformazioni dei conflitti contemporanei. Prima ancora che fornire risposte, la questione impellente che ci siamo posti è stata quella di fornire un metodo di indagine che potesse essere fatto proprio dagli studenti e replicato in modo autonomo, per aiutare a discernere e orientarsi tra le informazioni e le fonti disponibili.
Abbiamo quindi costruito un percorso didattico che parte dai conflitti contemporanei – ad esempio il contesto siriano, il contesto ucraino, ecc. – per andare a rintracciare lungo il corso del Novecento cosa è cambiato nelle modalità di “fare la guerra”, come sono cambiati i soggetti che la compiono, le modalità militari, trans-militari e non-militari con cui è combattuta. Si attraversano i due conflitti mondiali, la Guerra fredda, le decolonizzazioni, la fine dell’ordine bipolare, fino alle guerre asimmetriche contemporanee, rilevando continuità e rotture.
Al termine del percorso rimaneva però una questione aperta: come valutare l’apprendimento reale degli studenti? E come rendere la fase di valutazione non respingente ma un’occasione di confronto e crescita?
Abbiamo così ideato Uranicaun gioco di simulazione didattica che ricostruisce uno scenario verosimile di guerra asimmetrica in cui i partecipanti, divisi in gruppi, devono affrontarsi usando le categorie analizzate durante il laboratorio e agire coerentemente con i loro obiettivi di gioco e le loro possibilità di azione effettiva, che ovviamente sono diversi a seconda della scheda-paese assegnata.
La prima sperimentazione è stata svolta nel 2016 con alcune classi terze di una scuola media di Cinisello Balsamo e ha riscosso un buon successo; l’edizione successiva è stata implementata anche grazie ai suggerimenti e ai contributi ricevuti durante le fasi di debriefing dagli studenti e dagli insegnanti delle classi coinvolte.
Noi non ci siamo inventati nulla, sia chiaro. Siamo debitori nei confronti delle concettualizzazioni di didattica della storia di Ivo Mattozzi, del gruppo di Clio ‘92, delle riflessioni sull’uso e abuso della storia di Aldo Giannuli, della didattica ludica di Antonio Brusa e della sua “scuola”. Ma anche per la formalizzazione dei nostri metodi didattici abbiamo proceduto “al contrario”: siamo partiti dalla pratica e dal “campo” per rivolgerci alla teoria in un momento successivo, di maggiore maturità.
In questo nostro modo di servirci della storia – uso proprio questo termine, per riportarci alla domanda dell’inizio – c’è un aspetto fondamentale ed è il confronto con gli studenti e le studentesse sulle loro domande impellenti. La ricezione e l’ascolto delle loro domande, che spesso sono più complesse di quello che possono sembrare, per noi è imprescindibile per costruire un percorso didattico efficace.
Questo ovviamente ci mette nella condizione di non ripetere mai due laboratori sullo stesso tema nello stesso modo, riadattando sempre i contenuti ai contesti. È un lavoro innegabilmente faticoso ma che non dobbiamo fare da soli: coinvolge infatti tutto il gruppo, in un processo di confronto e rielaborazione che è sempre collettivo.
Etiopia 1935: Immaginario e miti guerrieri celarono gli eccidi compiuti dagli italiani in uniforme; dietro alle “Belle abissine” il fascismo cercò di nascondere la brutalità del regime semischiavile imposto agli etiopi e lo sfruttamento del lavoro di migliaia di operai italiani giunti in colonia per fame.
La parata delle gerarchie del Regno non spezzò mai la resistenza etiope e le enormi spese militari ebbero una conseguenza pesantissima: La bancarotta dell’Italia
L’attacco del Regime fascista all’Impero etiope nel settembre del 1935 fu il primo atto aggressivo di proporzioni rilevanti coinvolgente uno stato europeo dalla fine della grande guerra, segnando anche l’inizio di una escalation di conflittualità e tensioni nel vecchio continente, che, se certo non furono da esso provocate, lo contestualizzano all’interno di un sistema di “occasioni” e nuovi rapporti geopolitici che travalicano la pura volontà mussoliniana di “riportare l’impero sui colli di Roma”[1]. La campagna di Etiopia fu soprattutto l’ultima guerra coloniale tradizionalmente intesa nell’ultimo territorio rimasto indipendente del continente africano: “La guerra scatenata da Mussolini contro l’Etiopia è […] particolarmente importante proprio per il suo anacronismo; guerra coloniale “fuori tempo massimo”, ricadde sotto le nuove norme varate con la Convenzione di Ginevra del 1929”[2]. Guerra coloniale ma anche guerra nazionale, le operazioni in Etiopia conobbero una partecipazione non solo emotiva ma anche fattivamente entusiasta di vasti gruppi della società italiana[3], tanto da spingerci a definirla, come altri prima di noi[4], forse la più partecipata delle missioni compiute dal Regio Esercito.
Non a torto Vittorio Mussolini, figlio del duce, che con il fratello Bruno si arruolò volontario nell’Aeronautica, appena sbarcato a Massaua informa il lettore della sua memoria Voli sulle Ambe[5] che quello che brulica nelle strade e sui moli della città portuale è il più grosso esercito visto in Africa: certamente non lo fu, ma a molti italiani trovatisi nuovamente in grigioverde, seppur non condividevano con Vittorio l’illustre cognome e i vantaggi che gliene derivavano, la mobilitazione messa in piedi dal Regime dovette davvero apparire imponente. Il Regime volle che quest’impressione di potenza militare passasse anche ai civili, tanto che per la campagna venne predisposto un’ancora sconosciuto dispiegamento di mezzi cinematografici e fotografici: dodici operatori con tre registi più vari fotografi che contribuirono ad accumulare 4.000 fotografie e 40.000 di pellicola girata. “È come se […] il rapporto tra realtà e rappresentazione, tra evento e racconto, si invertisse. Qui sono infatti il racconto a produrre l’evento, la rappresentazione a determinare la realtà, l’invenzione a suggerire l’azione.”[6]
L’articolo, che trovate interamente su medium, è stato scritto da Sara Troglio in occasione della proiezione del documentario If Only I Were That Warrior presso l’Università degli Studi di Milano.