Lezione 1: “La rivoluzione criminale del Novecento”.
25 febbraio 2011, ore 12.30, aula 435
Lezione 1: “La rivoluzione criminale del Novecento”.
(a cura degli studenti di La.p.s.u.s.).
La lezione sarà dedicata al perché è necessario introdurre questo nuovo concetto nello scenario degli studi storici, economici, sociologici e politologici; attraverso la sua definizione, si introdurrà nello specifico il laboratorio e gli argomenti che tratteremo. Assegnazione lavoro ai frequentanti da presentare nella lezione 10; proiezione del video Milano criminale prodotto da Lapsus nel 2009, come esempio di lavoro d’analisi e studio del fenomeno della criminalità organizzata.
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Negli ultimi decenni le organizzazioni criminali di tutto il mondo, comprese le mafie italiane, hanno conquistato segmenti importanti dell’economia e della finanza internazionali. Congiuntamente ai processi di globalizzazione dei mercati e di graduale superamento delle frontiere, si è assistito a uno sviluppo senza precedenti dei circuiti illegali.
Una vera e propria rivoluzione ha interessato le principali strutture delinquenziali nell’arco del Novecento. La caduta del muro di Berlino ne ha esteso notevolmente i termini, provocando la comparsa di nuovi protagonisti sullo scenario criminale internazionale. Il grado di complessità che il fenomeno ha raggiunto rende problematica la ricerca di paradigmi interpretativi idonei a spiegarne sia le caratteristiche odierne sia l’evoluzione nel tempo.
Nessuno storico, salvo gli appassionati al tema, si è finora occupato seriamente di storia della criminalità organizzata. O meglio, nessuno storico ha mai affrontato questo argomento nei suoi caratteri generali e globali. Negli ultimi anni sono invece apparse sempre più storie, più o meno serie, di questa o quella organizzazione criminale, della criminalità in questa o quella città.
In questa sede, si proverà quindi di affrontare i principali problemi inerenti alla questione criminale contemporanea, oggi tema tra i più dibattuti, ma bisognoso quantomeno di una maggiore sistemazione scientifica, specie in ambito storiografico.
Si cercherà perciò di proporre una categoria di analisi nuova, che sicuramente necessita ancora di uno studio approfondito, ma che permette di guardare al fenomeno criminale sotto un aspetto innovativo, verificandone quei caratteri globali che ne hanno permesso l’affermazione.
Per definizione la criminalità non è un argomento di rilievo storico: può esserlo – e lo è stato – su un piano criminologico, sociologico e antropologico, ma la gran parte degli storici e dei politologi non vi ha mai posto attenzione, perché in effetti la delinquenza è stata da sempre associata ai concetti di devianza e marginalità. I criminali (mafiosi compresi), visti dalla sociologia classica, sono “idealmente” relegati al margine della società, e dunque hanno scarso rilievo storico, soprattutto nell’ottica di una storia raccontata come storia essenzialmente politica (infatti gli storici sociali dimostrano una maggiore sensibilità verso il tema, proprio perché confinante con la sociologia). Questa registra la malavita in modo episodico, come piccole eruzioni qua e là; e anche quando si nota una vistosa presenza della criminalità organizzata, l’argomento è scansato: ad esempio sul fatto che Cosa nostra abbia dato man forte allo sbarco alleato in Sicilia esiste una produzione storiografica di tutto rispetto, ciononostante rimane un tema sgradito a molti e facilmente aggirato.
Quali sono i motivi di questo “non vedere”?
In primo luogo, la criminalità è marginalità di fatto. Secondariamente, risulta più facile registrarla sotto il profilo socio-economico piuttosto che politico, piano che mette a disagio e viene accettato con molta più difficoltà. Questo atteggiamento di ritrosia è paragonabile al motivo per il quale gli storici non sono molto propensi a studiare la “strategia della tensione”: bisogna occuparsi di fonti “non classiche”, cui la maggior parte degli accademici non è avvezza, come quelle processuali; è una questione scivolosa poiché clandestina, segreta, con notizie a macchia di leopardo; inoltre, è un tema che si presta molto allo scoop giornalistico, fattore che tende ad allontanare l’interesse del mondo accademico.
Tuttavia, questo spiega solo in parte la disaffezione degli storici nei confronti della materia. In realtà, tra le varie ragioni, vi è che spesso essi mantengono lo sguardo rivolto al passato: hanno come orizzonte il fascismo, la Resistenza, al massimo gli anni Cinquanta. I più coraggiosi si avventurano sugli anni del centrosinistra e quelli della contestazione, ma sempre prendendo in analisi elementi puramente politici.
Ora, poiché si ritiene che la rivoluzione criminale trovi radici già nel proibizionismo statunitense degli anni Venti, e diventi fatto manifesto nei tardi anni Settanta, si può ben dire che sia trascorso un arco di tempo tale da permettere la produzione di una storiografia di rilievo anche su questo tema. Peraltro, questa è anche la dimostrazione di che cosa significa il “sonno” della ricerca storica: è vero che non si può scrivere di storia troppo recente, ma sono ormai trascorsi novant’anni di storia criminale, tenendo anche conto che i primi resoconti storici sul fascismo erano già prodotti una dozzina d’anni dopo la caduta dello stesso. Nel 1965, a vent’anni dalla fine della Resistenza, questa era già diventata storia.
Si cercherà ora di evidenziare alcuni degli elementi che giustificano questa nuova ipotesi concettuale, nella quale si accosta la categoria della rivoluzione a un contesto, quello delinquenziale, che nasce dalla marginalità.
Il primo punto fermo da mettere a fuoco è la rilevanza storica del fenomeno criminale. Essa può essere messa in luce attraverso le dichiarazioni ufficiali degli organismi internazionali.
Tra il 1997 e il 1998, il G8 evidenziava come la criminalità organizzata fosse il primo pericolo per la stabilità delle società democratiche e per la convivenza internazionale1; qualche anno prima, il Fondo monetario internazionale ne aveva stimato il monte-affari complessivo, pari al 2% del Pil mondiale2; nel 1998 si calcolava che la quota-affari oscillasse tra il 2 e il 5% del Pil mondiale. In Italia, nel 2010, la Corte dei Conti ha calcolato l’ammontare dei beni confiscati alle associazioni criminali presenti sul territorio nazionale partendo dai dati forniti dalla Dia: il totale ammonta a circa 730 milioni di euro3. L’Onu ha rilevato, sempre nel 2010, che l’incidenza del crimine organizzato sul Pil globale ha raggiunto il 10%4. È quindi evidente che non si tratta più di un fenomeno marginale, e questi indicatori economici dimostrano ampiamente la veridicità di questa affermazione.
Osservando questi dati, è facile pensare che i “boss” non abbiano lasciato i soldi dei traffici illegali in banca a riposare: parte di questi sono stati reinvestiti nei circuiti abituali (narcotici, prostituzione, armi ecc.) ma dopo un po’ di tempo il denaro si è trasformato in iniziativa economica. Questo fenomeno ha dato vita al cosiddetto “settore grigio”, ossia iniziativa economica finanziata con denaro mafioso investito in attività legali o paralegali. A tal proposito è utile richiamare alla memoria due esempi. Cosa nostra americana, negli anni Settanta, acquistò diverse catene di lavanderie automatiche monopolizzando il settore, permettendo così il riciclaggio dei soldi ricavati dallo spaccio di droga, spesso banconote di piccolo taglio e quindi piuttosto scomodi da portare in banca. Anche la mafia italiana, negli anni Novanta, cominciò a comprare macchinette per sigarette, bar e cinema, ossia esercizi dove più facilmente poteva avvenire l’attività di riciclaggio. Da notare la similitudine tra azioni avvenute a latitudini molto lontane.
Quindi il fenomeno criminale, inteso a livello globale, in tempi e modalità diverse è uscito dalla zona d’ombra e ha cominciato a levarsi dalla marginalità del settore. Assieme al “mercato grigio” si è prodotta nel corso del tempo la convergenza fra mercato bianco e nero, ossia la partecipazione di capitali mafiosi a grandi iniziative finanziarie: è stato il caso del fiorire di grossi finanzieri venuti dal nulla, come ad esempio Joe Adonis a Milano (o più avanti Michele Sindona), intermediari incaricati di riciclare il denaro sporco investendo capitali nelle più disparate aziende. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, iniziò già ad esserci il denaro in grado di sostenere operazioni finanziarie nel settore legale dell’economia, specie per Cosa nostra.
Un altro degli aspetti che più caratterizza la questione criminale contemporanea è la crescente integrazione a livello globale delle organizzazioni, tendenza rafforzatasi notevolmente con la caduta del muro di Berlino che, scompaginando l’assetto mondiale bipolare, ha favorito la costituzione di una rete mondiale che permette uno stabile collegamento tra holding criminali. Qualche considerazione in merito. Una prima definizione possibile della mafia sul piano generale, anche se ovviamente limitata, è l’essere “accumulazione originaria di capitale in forme criminali”. Questo è sicuramente un fenomeno che caratterizza la contemporaneità, ma è possibile rintracciare almeno un antecedente: l’epoca d’oro dei corsari (XVII-XVIII secolo), che fornisce un ottimo esempio di tale “accumulazione criminale” ante litteram, ma questo è probabilmente l’unico caso nella storia moderna adatto a un paragone.
Non è perciò l’accumulazione, il tratto distintivo della criminalità organizzata novecentesca.
Che cosa ha di diverso la criminalità del XX secolo da ogni altra forma antecedente di essa?
Innanzitutto, il carattere tellurico, e dunque il radicamento al suolo in senso meramente fisico, che coinvolge tutta una serie di problematiche sociali diverse, a seconda del contesto in cui il fenomeno criminale si sviluppa.
In secondo luogo, il carattere urbano. Ad esempio, la mafia siciliana può anche trovare nello scenario rurale la propria culla, ma per prosperare e compiere il salto di qualità ha bisogno dell’ambiente cittadino, e questo permette di tracciare una grossa distinzione tra mafia e brigantaggio, il quale invece ha esercitato e conservato per un certo periodo il controllo del territorio solo nelle campagne, in zone di montagna o forestali, difficilmente raggiungibili dalle forze armate dello Stato. Non che prima dell’arrivo della criminalità organizzata le città fossero immuni da fenomeni delinquenziali, ma come dimostra il caso milanese (con la “ligera”), questo era sicuramente limitato e per di più confinato all’esterno delle mura (nella zona dei Navigli, grande arteria di comunicazione in gran parte sottratta a qualsiasi tipo di controllo, o all’Isola). Dunque, la mafia si presenta come un fenomeno ormai non più marginale, ma neanche riducibile soltanto al radicamento territoriale o alla dimensione urbana.
È possibile quindi affermare che il modo di accumulazione proprio della criminalità organizzata ha funzionato talmente bene da portare alcuni autori a parlare di un “modo di produzione criminale”, con caratteristiche proprie e per questo distinto e parallelo al classico modo di produzione capitalistico.
Come si è detto, il denaro ottenuto attraverso le varie attività criminali è stato riversato in attività economiche “grigie” o legali; tuttavia, il rapporto con le attività illegali non è mai venuto meno: la connivenza tra legale e illegale è persistita per via di tutta una serie di costi che intervengono tra profitto realizzato e investimento in attività legale. La filiera (nel senso di struttura dell’organizzazione) di questo “modo di produzione” permette sì un guadagno altissimo, ma è al contempo particolarmente articolata e ha quindi diversi costi: ad esempio, gli stupefacenti sono una delle merci in grado di produrre il profitto più alto (tra il “produttore” e il “consumatore” si calcola che il valore di una singola quantità possa crescere del 5000-6000%), ma tra narcotrafficante e spacciatore ci possono essere anche fino a 15-16 passaggi, che comportano quindi spese considerevoli. Bisogna poi tenere in considerazione il bisogno di un secondo e parallelo tipo di filiera, deputata al riversamento dei capitali nel mercato: i boss delle varie organizzazioni criminali non possono, infatti, comparire dietro le varie imprese che permettono loro il riciclaggio del denaro; è necessario quindi ricorrere a un complicato gioco di prestanome, di scatole cinesi. In più, simmetricamente, questa attività di riciclaggio richiede l’accollarsi di attività in perdita per non destare troppi sospetti. Dunque, le trasformazioni organizzative e la dimensione razionale delle formazioni criminali occupano necessariamente un rilevo particolare nella nuova categoria di analisi. Infatti, il sistema appena accennato non è un dato storicamente costante, ma il risultato di un complesso insieme di meccanismi intervenuti nel corso dei decenni.
Sotto questo profilo, c’è da tenere presente che, in linea di massima, è possibile individuare due macro-modelli organizzativi (di cui esistono comunque varie declinazioni, dovute a fattori culturali, sociali, economici, antropologici): una di tipo piramidale, l’altra di tipo rizomatico. Le prime, ad esempio Cosa nostra e le Triadi cinesi, hanno una sorta di organismo decisionale centrale, che funge da “stato maggiore” (per Cosa nostra, la cosiddetta “cupola”). Non tutte hanno però questa conformazione: ad esempio, restando in Italia, la ‘ndrangheta ha un altro tipo di struttura, quella rizomatica, così come la possedeva anche il cartello di Medellìn. In questo caso, l’idea alla base è quella di una “rete di reti”, dove non è fulcro una catena di comando fortemente gerarchica, ma piuttosto una serie di attrattori reciproci (citiamo l’esempio degli stormi d’uccelli, dove ogni uccello, mantenendo le distanze da alcuni punti di riferimento attorno a sé, contribuisce al mantenimento della struttura originaria dello stormo) in grado di tenere l’organismo criminale sempre vivo, anche nel caso di arresti importanti.
Non bisogna poi dimenticare un altro aspetto fondamentale che contraddistingue il fenomeno nei suoi lineamenti generali, ossia la dimensione militare delle organizzazioni. Difatti, il braccio armato che le organizzazioni criminali possiedono ne ricorda probabilmente il carattere più antico ed essenziale, poiché all’origine di ogni gruppo vi è da sempre la volontà di arricchirsi mediante la prevaricazione, l’intimidazione e soprattutto attraverso l’utilizzo strumentale della violenza fisica, che contempla l’eliminazione di ostacoli e oppositori. Ma anche sotto questo profilo si assiste a un’evoluzione costante, legata strettamente a ogni mutamento che la società attraversa nel suo complesso.
Invero con la componente militare, nel tempo si è fatto strada un altro elemento caratteristico della contemporaneità: l’importanza delle informazioni, e l’interesse dei gruppi ad avere un servizio informativo paragonabile a un vero e proprio servizio segreto. Ogni organizzazione lavora infatti con un sistema d’informazioni molto possente, che, ad esempio, al momento della richiesta del “pizzo” permette una pressione sul negoziante tramite dati che nessuno conosce, e per questo fortemente intimidatoria. Quindi, la macchina informativa mafiosa risulta decisamente stringente, con la necessità di avere un confidente in ogni settore utile, come banche, uffici postali, commissariati, tribunali, uffici della pubblica amministrazione, social network ecc.
L’informazione è dunque vitale per le organizzazioni, ma come tutte le componenti del mondo criminale va tenuta sotto controllo, e per questo è necessaria di nuovo la dimensione militare, che ha anch’essa costi di mantenimento (killer, appoggi logistici, mantenimento delle famiglie dei detenuti, discrezione). Dunque, è imperativo per i gruppi criminali reinvestire parte dei profitti nei settori convenzionali della malavita, in modo tale da finanziare quelle cellule indispensabili. In secondo luogo, però, tutto questo ha la conseguenza di incentivare la tendenza alla finanziarizzazione della mafia. Essa, storicamente, non tende a investire in attività di produzione, ma premia la rendita: viene ad esempio privilegiata l’attività immobiliare, o la proprietà terriera, e soprattutto la rendita finanziaria, con investimenti su titoli di Stato, obbligazioni ecc.
Si giunge quindi a un elemento chiave dell’analisi: la progressiva infiltrazione dei mercati finanziari internazionali. È un aspetto di assoluto rilievo perché è forse quello che più ha rivoluzionato la questione criminale nella sua globalità, accomunando gruppi culturalmente e geograficamente molto distanti. Seguendo questa linea è possibile rinvenire, nel contesto della rivoluzione “neoliberista”, due fattori storicamente caratterizzanti e strettamente intrecciati l’uno con l’altro: il primo rimanda alla guerra del Kippur (1973), che creò un’enorme bolla di denaro da reinvestire, il secondo riguarda il conseguente momento di crisi generale, dovuta allo shock petrolifero, seguito dall’aumento della pressione fiscale e dalla crisi del welfare. Il tutto sfociò in una sensibile recessione, che rese necessaria la ricerca di denaro. Una percentuale di questo fu ricavata investendo parte della bolla sopracitata, la quota rimanente invece trovò radici sia nei capitali criminali legati al commercio internazionale di stupefacenti (al dopoguerra risalgono i primi progetti organici di proibizionismo verso le droghe nelle legislazioni di vari Paesi), sia al monopolio ottenuto dalle organizzazioni sull’industria del divertimento, che risaliva agli anni ‘40 (è singolare notare come il flipper sia stato diffuso dalla ditta di David Gottlieb, appartenente alla mafia ebraica statunitense).
In particolare, il mercato della droga permise un’accumulazione fortissima di capitali, riversati in un secondo tempo nei circuiti finanziari. Pensiamo all’utilizzo degli stupefacenti in Vietnam durante la guerra: il papavero veniva comprato in grandi quantità dagli Stati Uniti presso le popolazioni ostili ai vietcong; oppure al boom dell’eroina, che dalla metà degli anni Settanta invase letteralmente l’intero Occidente. Dunque, senza questo apporto determinante della criminalità, probabilmente la svolta neoliberista sarebbe avvenuta in modi, tempi e forme diversi.
Come si può osservare, lo sviluppo della criminalità si presta molto meglio a un’analisi multicausale piuttosto che monocausale, dal momento che tende a coinvolgere tutti gli aspetti della società contemporanea: economici, sociali, culturali e come verremo discorrendo adesso, anche politici. Infatti, da tenere in particolare considerazione nel contesto della rivoluzione criminale è l’aspetto di natura politico-culturale, ossia “geopolitico”: la criminalità ha iniziato a esprimere una capacità di condizionamento della politica in quanto tale. Dell’Italia non c’è bisogno di narrare di intere regioni dove il controllo del voto è potentissimo e la corruzione dilagante; né è necessario ricordare i numerosi tentativi, in diversi paesi, di portare alle elezioni per le diverse cariche politiche candidati direttamente legati alle organizzazioni criminali. Può essere invece utile il riferimento all’ex Unione Sovietica. Il problema per le repubbliche periferiche dell’Urss era di creare un proprio sistema economico locale per guadagnare autonomia dalle direttive di Mosca, ma data la struttura socio-economica dello Stato sovietico, questo tipo di economia andava costruita tramite mezzi illegali. Di volta in volta quindi, si sono verificati dei momenti di cooperazione-scontro con il Kgb che hanno portato alla creazione di una sorta di “cintura” criminale, sviluppatasi a partire dal Caucaso e che, attraversando le repubbliche centro-asiatiche, andava a chiudersi sulla fascia della cosiddetta “via della droga”, ovvero tra Kazakistan, Uzbekistan, Afghanistan, Turkmenistan.
Tutto questo ha avuto dei risvolti notevoli sulle manovre di geopolitica mondiale, in certi casi con il tentativo delle organizzazioni di imporre i propri rappresentanti presso vari Stati. Oggi, in diversi contesti, abbiamo dei veri e propri Stati-mafia, o troviamo delle situazioni in cui le mafie si “limitano” a offrire al potere politico un supporto militare, e in altri casi ancora gruppi che tendono a controllare indirettamente gli Stati attraverso ricatti, ad esempio minacciando di manipolare la moneta fino al crack finanziario sui mercati globali. Un caso a sé riguarda poi le vicende del Kosovo e della criminalità albanese, che si è fusa con alcuni movimenti nazionalisti e dimostra un’aggressività economica del massimo rilievo internazionale.
Dunque, di cause per considerare il fenomeno in una nuova prospettiva ce ne sono in abbondanza. Introdurre il concetto di rivoluzione criminale sembra non solo fondato scientificamente (perché trova perfetta corrispondenza con ciò che è accaduto e che continua a verificarsi), ma anche utile a marcare gli elementi discriminanti in un processo storico globale, molteplice e articolato. Difatti il vero problema è determinare gli attrattori che hanno permesso lo sviluppo di questa rivoluzione. Uno è sicuramente la crisi del 1973, ma ve ne sono diversi altri che verranno successivamente presi in esame in questa sede.
È altresì importante ricordare che la storia della criminalità può rivelarsi molto utile come esercizio metodologico per testare alcuni elementi della “complessità” in sede storica, ad esempio il concetto di feedback positivo (la mafia guadagna, ciò permette di corrompere settori dell’amministrazione, il che permette altri guadagni, questo permette di influenzare il livello politico, quindi si generano ulteriori guadagni che moltiplicano la forza della mafia, che ottiene un riscontro anche elettorale ecc.)
Alla luce di tutte queste considerazioni, si ritiene essere giunto il momento di prospettare una nuova stagione di studio, orientata alla comprensione di questi temi in una prospettiva capace di dare rilievo sia alla specificità dei gruppi criminali nella loro evoluzione storica, sia e soprattutto al ricondursi di questi in un unico quadro di riferimento globale. Per fare ciò un’attenzione particolare va senza dubbio riservata alla multiformità della questione, ossia alla sua natura composita, che produce l’esigenza di coinvolgere una molteplicità di discipline e settori scientifici diversi, in grado di studiare i meccanismi che hanno consentito lo sviluppo senza precedenti dei gruppi criminali, elevatisi dalla marginalità di principio e resisi protagonisti attivi nello scenario capitalista globalizzato.