Lezione 2: “Il contesto economico che ha permesso l’evoluzione della criminalità organizzata”.

images4 marzo 2011, ore 12.30, aula 435

Lezione 2: “Il contesto economico che ha permesso l’evoluzione della criminalità organizzata”.

relatore: Prof. Luigi Vergallo, ricercatore in storia economica all’Università degli studi di Milano.

La lezione verrà divisa in due parti: la prima, più sintetica, di storia economica occidentale dal 1945 al 1973; la seconda, più approfondita, dove verranno affrontati i cambiamenti economici globali dalla crisi energetica del 1973 fino al ventennio di globalizzazione neoliberista successivo al 1989.

Leggi la dispensa della lezione.

Trascrizione della lezione.

a cura di Ciro Dovizio, La.p.s.u.s.

La fase di sviluppo compresa fra la seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera è comunemente intesa come “l’età dell’oro”, secondo una definizione fortunata che si deve allo storico E. Hobsbawm, autore de Il secolo breve.
Tra gli anni Cinquanta e quelli Settanta si registra uno sviluppo dell’economia a livello mondiale che non ha precedenti analoghi, soprattutto perché, pur essendo caratterizzato da squilibri e contraddizioni, non appare più limitato a una determinata area, come si era verificato nei secoli precedenti, ma coinvolge la struttura economica nella sua globalità. Da questo momento in poi cominciano ad affermarsi altre zone del pianeta, che conoscono un processo di crescita imponente.

Secondo molti storici, le cause alla base di questo grande processo di trasformazione vanno ricercate nel giugno 1944, quando le grandi potenze, mentre il conflitto è avviato verso la conclusione, si riuniscono a Bretton Woods per cercare di porre le basi di una nuova stagione di collaborazione economica a livello mondiale. In questa occasione nascono la Banca Mondiale (inizialmente denominata Banca per la ricostruzione e lo sviluppo) e il Fondo Monetario Internazionale.
Nell’ambito di questi accordi, gli Usa ritengono di fondamentale importanza abbattere tutti gli ostacoli che si frappongono alla libera cooperazione economica, e in questa prospettiva decidono di introdurre la c.d. “convertibilità” in oro. L’obiettivo principale è costituire un sistema monetario stabile, attraverso un regime di cambi fissi in grado di stimolare e tutelare l’economia internazionale. In secondo luogo, impongono ai paesi aderenti di rinunciare a politiche monetarie che possano incidere sulle dinamiche commerciali; si pensi ad esempio alla manovra, tradizionalmente messa in campo dall’Italia, di svalutare la lira a favore delle esportazioni.

Il sistema messo in piedi a Bretton Woods funziona correttamente e conosce un notevole successo, pur ponendo gerarchie molto forti sullo scacchiere politico internazionale. Il dollaro, dopo la svalutazione della sterlina del 1949, non avrà più rivali come moneta di riferimento, e gli Stati Uniti rappresenteranno il centro propulsore dell’economia mondiale. Tutti gli stati pagheranno le merci di più grande valore in dollari.
Diversi studiosi individuano proprio in questo stimolo statunitense la base dello sviluppo generale dei decenni successivi. In questo senso la catch-up growth theory (teoria della crescita da rincorsa) evidenzia appunto che i paesi aderenti al nuovo sistema, “rincorrendo” gli Stati Uniti, sono stimolati ad avviare anch’essi una crescita particolarmente significativa, che dura quasi senza interruzione per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta.

Per esemplificare la portata di questa trasformazione, sarà utile riportare alcuni dati, così da fondare l’analisi su una base quantitativa di riferimento.
Tra il 1953 e il 1973, il saggio medio annuale di crescita della produzione industriale, a livello globale, è pari al 4,4% negli anni Cinquanta, e al 5,2% nei Sessanta. Il tasso medio relativo all’aumento dei prezzi equivale a 3% nel primo decennio considerato (’50) e al 4% nel secondo. Considerando invece i saggi di sviluppo della produzione relativi ai singoli paesi, al primo posto si trova la Repubblica Federale Tedesca, che cresce del 7,8% medio: un vero “miracolo economico”, oltremodo sorprendente per uno degli stati in misura maggiore colpiti dal conflitto in termini di distruzioni materiali.

Ma in realtà proprio la guerra spiegherebbe in parte le ragioni di questa enorme espansione. Difatti è ben noto alla scienza economica il carattere rigenerativo che spesso un conflitto può assumere. Talvolta può rivelarsi addirittura un toccasana per l’economia, dato che le devastazioni provocate, se da un lato si traducono in una disintegrazione di “capitali” (relativi ad armi, edifici, industrie, uniformi ecc.), dall’altro consentono di spalancare nuovi spazi al reinvestimento, indirizzato alla ricostruzione di nuovi edifici, nuove infrastrutture, nuove industrie ecc., consentendo di rimettere in moto il volano dello sviluppo. Del resto la maggioranza degli studiosi risulta generalmente concorde nel vedere in questo aspetto un fattore di crescita di sostanziale importanza.

Dopo la Rft, il secondo paese che manifesta i segnali più stupefacenti di ripresa è la Grecia, che cresce al 5,9%, subito seguita dall’Italia e dall’Austria, che conoscono un incremento del 5,8%. Per quanto possa sembrare distante dall’immaginario comune, l’Europa orientale non risulta affatto da meno in questo scenario: difatti cresce del 5,6% nel corso degli anni Cinquanta e del 4,9% negli anni Sessanta.

A questo punto è necessario definire, sul piano complessivo, le ragioni alla base di questo generale e duraturo slancio, vissuto, è opportuno ripeterlo, non solo dalle tradizionali potenze industriali, ma anche da paesi avvicinatisi solo da poco tempo al processo di industrializzazione o ancora caratterizzati da diffusa arretratezza. Per avanzare in questa direzione, può essere utile richiamare all’attenzione la teoria del disequilibrio, che interpreta la crescita registrata come strettamente connessa a un cambiamento strutturale del sistema economico. Il problema principale, durato per secoli, era legato al fatto che centinaia di milioni di persone si trovavano occupate in modo assolutamente improduttivo nell’agricoltura. Perciò lo spostamento di una consistente porzione di forza-lavoro, sul piano mondiale, dai campi agricoli all’industria chiarirebbe perché i tassi di crescita siano di così rilevante entità.

E da questo punto di vista l’Italia rappresenta un caso emblematico e allo stesso tempo stupefacente. Secondo i censimenti industriali (che si svolgono ogni dieci anni) tra il 1951 e il 1961, l’agricoltura italiana passa da ca. 8.200.000 occupati a 5.900.000. Si provi a immaginare cosa possa significare il passaggio di una così grande massa di popolazione dalla vita rurale a quella cittadina e industriale, con tutte le conseguenze che questo cambiamento comporta in termini di consumi, stili di vita, visioni del mondo, modelli, in un paese oltretutto di piccole dimensioni come l’Italia. Con l’arrivo della catena di montaggio e di altre innovazioni, il nostro Paese vive in un decennio una serie di trasformazioni che stravolgono la società in maniera radicale. Basti ricordare l’entità che acquista l’immigrazione interna: ad esempio Milano vive un incremento di popolazione pari al 26%, quasi interamente dovuto al fenomeno migratorio. Non a caso questo è anche il decennio in cui le giunte milanesi cominciano a interessarsi ai piani regolatori, predisponendo la costruzione di numerosi agglomerati edilizi popolari; e in questo periodo il problema delle abitazioni è centrale soprattutto a Torino. Tuttavia questi aspetti ci porterebbero su un altro piano d’analisi che non è possibile considerare in questa sede, ma rimangono comunque indicativi di una trasformazione certamente di portata unica.

Dunque, il versamento di forza-lavoro nell’industria consente all’economia di crescere nel suo complesso. Sempre prendendo come riferimento il caso milanese, considerando i dati relativi all’occupazione, si rileva che dai 427.403 addetti nel settore secondario del 1951, si passa agli 800.000 ca. del 1971; in altri termini a Milano gli occupati nell’industria aumentano pressappoco del 100% in vent’anni.
Ciò nonostante, è durante questa fase di crescita molto rapida e positiva che si avvertono i primi segnali di un’incombente inversione di tendenza. Infatti, già dagli anni Sessanta alcuni paesi cominciano a raggiungere i livelli tecnologici americani, mentre per quanto riguarda i flussi commerciali, l’esportazione europea negli Usa, che ammontava nel 1950 al 40% delle importazioni americane in Europa, comincia ad assottigliare il proprio deficit nei confronti del rivale d’oltreoceano. E se gli Stati Uniti contribuivano al 34,1% del Pil mondiale nel 1961, nel 1970 lo facevano per il 30,49%. Nel 1975, quando la crisi petrolifera aveva già prodotto i suoi effetti, il dato scendeva al 29,23%. E nel 1980 avrebbe toccato la cifra di 28,99%.

Questi dati, di per sé eloquenti, acquisiscono significato ancora maggiore se confrontati con quelli del vero protagonista di questo periodo: il Giappone. Questo paese contribuiva nel 1960 al 9,84% del Pil globale. Ebbene, nel 1975 la quota era salita al 14,68%, per arrivare nel 1980 al 15,79%. Osservando il paragone, si rileva che gli Usa perdono, nell’arco di tempo preso in considerazione, il 5,4%, mentre il Giappone guadagna il 5,9%. Con questo non si vuole ovviamente sostenere che il Giappone si stesse avvicinando agli Stati Uniti sul piano della capacità economica, perché ragionando in termini assoluti, l’economia americana rimaneva indubitabilmente la più forte, tuttavia non è da sottovalutare il fatto che già nel 1973 il Giappone avesse superato gli Usa in termini di Pil pro capite, indicatore ben più attendibile quando si cerca di calcolare la ricchezza effettiva di un paese.

Questo fenomeno di riequilibrio economico deve essere debitamente spiegato, per chiarire come sia potuto accadere che nell’arco di un trentennio la maggiore potenza industriale e tecnologica del pianeta, pur restando al primo posto nello scenario internazionale, abbia subito un certo ridimensionamento sul versante della competitività. È possibile indicare con certezza una fase conclusiva della cosiddetta “età dell’oro”? Alcuni storici sostengono che questa vada individuata nella crisi petrolifera del 1973, mentre molti altri ritengono che le cause vadano ricercate negli anni immediatamente precedenti. Ciò che comunque mette tutti sostanzialmente d’accordo è che a un certo punto l’equilibrio nella concorrenza va deteriorandosi: da una parte gli Usa iniziano a perdere terreno, riducendo la propria funzione di centro propulsore dell’economia mondiale, dall’altro la stessa corsa conduce verso un esubero di produzione, che comporta inevitabilmente un inceppamento del meccanismo di sviluppo.

Gli studiosi che non attribuiscono alla crisi petrolifera la causa più rilevante dell’indebolimento generale, mettono in rilievo il fatto che nel 1971 il sistema di Bretton Woods viene letteralmente sgretolato, dopo che Nixon, coadiuvato da un gruppo di economisti, dapprima revoca la convertibilità del dollaro in oro, e in un secondo momento, qualche mese dopo, svaluta la moneta americana. Vengono così abbattuti i due pilastri che avevano sorretto il sistema costruito nel 1944. Inoltre, a corollario dell’inversione di tendenza, viene imposta alle importazioni una tassa del 10%. Gli Stati Uniti, paladini del liberoscambismo di scala globale, capovolgono la propria politica economica. Per la prima volta il meccanismo alla base dell’età dell’oro, effettivamente virtuoso sotto molti aspetti, che aveva permesso una reale espansione in termini di ricchezza e benessere, che aveva portato alla nascita dello “stato sociale” in molti paesi, viene bruscamente interrotto, provocando i primi crolli dell’occupazione.

Nel 1973 la crisi petrolifera si aggiunse a complicare ulteriormente la situazione. Dopo la guerra dello Yom Kippur, il prezzo del petrolio subì un incremento notevole, provocato strumentalmente dai paesi dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries) per portare a consigli più miti i paesi occidentali nei propri rapporti con Israele. L’incremento del prezzo di una materia prima di fondamentale importanza per il mondo occidentale avrebbe rappresentato, secondo l’altra delle tesi più accreditate, la principale causa della crisi economica degli anni immediatamente seguenti.
Tuttavia, va considerato che il monopolio esercitato dai paesi esportatori, visto dal punto di vista opposto, si configurava anche come monopsonio. Per dirlo con altre parole, all’epoca, pur considerando gli importanti sviluppi che altri paesi stavano vivendo, i principali acquirenti di greggio rimanevano gli occidentali, e mettendo questi ultimi in condizione di non poter comprare, i paesi dell’Opec potevano paradossalmente procurare un danno alla loro stessa economia. Dunque da questo lato, alla questione petrolifera sarebbe attribuibile soltanto parzialmente la responsabilità della crisi (si veda però la questione dei “petrodollari”, aspetto che non è qui possibile prendere in considerazione, ma che spiega l’apparente contraddizione intrinseca al binomio monopolio/monopsonio delle risorse petrolifere).

In ogni caso, negli anni Settanta si assiste allo stravolgimento del panorama economico generale, in quanto la congiuntura critica conduce alla cosiddetta “deindustrializzazione” dell’Occidente. Le imprese si trovano in gravi difficoltà e sono obbligate a ricercare soluzioni volte a ridurre i costi. Si registra così una ristrutturazione complessiva che non riguarda solo gli aspetti produttivi, ma investe la società sotto tutti gli aspetti.

Uno dei concetti chiave di questa fase, da tenere presente per capire le dinamiche successive, è quello di terziarizzazione, termine che ha la singolare caratteristica di sottendere sostanzialmente due significati. In primo luogo rimanda alla tendenza delle imprese ad alleggerirsi (downsizing), delocalizzando ciò che non è considerato core business all’esterno, cioè ad aziende di minore dimensione. Vale a dire che le compagnie tendono a detenere in modo diretto solo ciò che è considerato strettamente necessario, “subappaltando” tutte le attività considerate non essenziali e latrici di costi aggiuntivi ad altre società. Le conseguenze di tale tendenza si riflettono direttamente sulle politiche di reclutamento, e su questo punto insisteranno le innovative teorie di organizzazione del lavoro e di produzione, si pensi ad esempio al “toyotismo” e ai concetti collegati di just in time e autonomazione. In secondo luogo terziarizzazione è da intendere come incremento del settore dei servizi sul piano occupazionale, ossia l’orientamento delle aziende a dislocare la produzione in altri paesi, contando di ridurre in questa maniera il costo del lavoro. Questo processo spiega anche l’attuale preponderanza del settore terziario nelle società occidentali contemporanee.

Il fenomeno della delocalizzazione era già stato considerato dall’economista liberale Hobson, il quale, studiando il caso inglese, notava che trasferendo le industrie in altri paesi, specie in quelli dominati, si rischiava di indebolire strutturalmente la stessa economia della Gran Bretagna. Quindi il fenomeno di per sé ha origini antiche, anche se ha raggiunto dimensioni globali a partire dagli anni Settanta, in concomitanza con la congiuntura critica generale.

Tuttavia, va considerato che a livello mondiale e in termini assoluti la produzione industriale è aumentata enormemente nel corso dei decenni, solo che non risulta più localizzata prevalentemente nel mondo occidentale, ma coinvolge soprattutto le aree di più recente industrializzazione. In seguito al ridimensionamento delle unità di produzione e alla dislocazione di molte attività all’estero, gli stabilimenti si sono sì ridotti, ma sono numericamente aumentati, e in modo consistente.

Contemporaneamente alla deindustrializzazione si è affacciato il problema delle infiltrazioni criminali all’interno del circuito imprenditoriale e finanziario. Nell’ambito di una struttura economica che ha visto la riduzione delle unità produttive, e che ha conosciuto la progressiva terziarizzazione intesa nei due sensi sopra descritti, le diverse organizzazioni mafiose si sono perfettamente integrate nel sistema, poiché le imprese ad esse collegate, soprattutto commerciali e finanziarie, sono rese meno facilmente individuabili dalla loro estrema dispersione.

In questo modo si è avviato un processo di distorsione dell’economia, in cui appare sempre più difficoltoso distinguere le aziende che operano nei confini della legalità da quelle che fanno ampio ricorso a denaro proveniente da attività illecite.

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